LETTERA APERTA AI PROFESSIONISTI DELLA SCUOLA

 
 

ELEZIONI RSU: UN’OCCASIONE PER CAMBIARE DAVVERO.

IL PROGRAMMA ELETTORALE DELL’UNICOBAS SCUOLA.
 

 

PREMESSA

L’Unicobas non è semplicemente “oppositivo”: propone, andando oltre oltre il semplice momento “vertenziale”, contingente e “salarialista”, un progetto scuola nato dal confronto diretto con la categoria docente, gli studenti, il personale ATA. Quella dell’Unicobas è una piattaforma operativamente “forte”, socialmente orientata, capace di creare intorno all’istruzione pubblica consenso e sostegno sociale, nonché di costituire punto di riferimento e collegamento con quelle fasce di cittadini il cui impegno civile va nella direzione della lotta comune contro dequalificazione e pauperizzazione, contro la sottocultura dell’opportunismo, dello sfascio e della rassegnazione.

Con la costituzione dell’Unicobas scuola si è affermato un nuovo soggetto che è stato capace di imporsi e legittimarsi senza cedimenti verso la controparte e di farsi portavoce organico delle istanze democratiche della categoria, unificandola al di là delle “appartenenze ideologiche”, direttamente sui propri bisogni collettivi, a partire dall’acquisizione della propria identità comune.

Le liste dell’Unicobas non sono determinate da alcuna volontà di spartizione “consociativa” o dall’arrivismo di mestieranti sindacali. Il nostro programma si è deciso secondo il metodo della democrazia diretta, secondo le indicazioni delle assemblee provinciali, dei distretti, sino ai singoli istituti ed ai delegati di scuola, in un processo aperto a tutti. Saranno presenti perchè c’è la necessità reale di determinare una svolta decisiva, visto che queste elezioni RSU determineranno l’accredito ed il peso delle organizzazioni sindacali alle trattative nazionali e decentrate.

IL “DISORDINO” DEI CICLI

Che la scuola italiana avesse (eb abbia) bisogno di tratti di riforma è indubbio. L’attenzione alla scuola è quasi sempre stata inadeguata in questo Paese, nè le modifiche a colpi di circolari o “sperimentazioni” provvisorie, divenute stabili per forza d’inerzia, hanno mai risolto i problemi aperti. Andavano (e vanno) rimossi i limiti prodotti dallo scarso raccordo fra ordini e gradi di scuola, le storture derivanti dalla rigidità e dall’inattualità dei programmi (specialmente della secondaria).

Per questo motivo l’intenzione di Berlinguer di mettere mano alla questione era stata salutata positivamente dal mondo della scuola.

Purtroppo, si è visto ben presto che l’operazione nasceva ancora una volta come nel passato: politica del compromesso e dell’ambiguità, scarsi contenuti, interventi estemporanei, bassa considerazione del corpo docente. Tanto che venne assemblato un Comitato di Saggi nel quale, pur presenti cantanti ed attori, non fu chiamato un solo insegnante. Se da un lato, venivano colti alcuni aspetti - possibilità per gli alunni di cambiare indirizzo, maggior peso ai docenti interni (questo nella riforma della maturità, con il limite però di favorire le scuole private, per le quali sarebbe stato necessaria una normativa differenziata) - dall’altro risultava subito evidente che non v’era stata alcuna attenzione ai programmi ed ancor meno alla qualità espressa da importantissimi settori della scuola pubblica.

Abbiamo avuto così, nell’ambito dell’idea condivisibile di un’unificazione del ciclo di base, una scarsissima attenzione alla scuola elementare, che secondo l’OCSE è stata al primo posto nel mondo sino al 1990, trascinata in basso (al comunque rispettabile quinto scalino) dalla controriforma che proprio in quell’anno (L.148/90) ha introdotto i moduli verticali, a “scavalco” e “4 su 3”, ha regalato alla privata il congelamento del tempo pieno e tentato di destinare le ore di contemporaneità alle supplenze. Anziché intervenire per rimuovere i danni della Falcucci e di Galloni (e dei soliti 4 sindacati), Berlinguer ha pensato bene di scaricare su elementari e medie il peso di una riforma singolarmente costruita “a costo zero”. Così, incurante della matematica, il primo ministro “di sinistra” ha creduto di poter concentrare su 7 anni i docenti di due ordini di scuola che oggi insistono su 8, prefigurando un esubero di circa 80.000 cattedre! Ha ritenuto insomma di concentrare i diplomati di scuola elementare sui primi due anni (per la mera “alfabetizzazione”), riservando ai laureati un trattamento non meno discriminatorio, costingendoli alla lotta per il posto con i colleghi provenienti dalla media in un circolo ristretto insufficente agli uni ed agli altri, in più pensando di poterli utilizzare su medesime classi con retribuzioni differenti. Il tutto per interdire ai docenti delle medie il passaggio alla secondaria superiore. In quanto a “qualità”, lascia attoniti l’idea di un rientro dell’ottica di quell’avviamento professionale giustamente eliminato con la media unica nel ‘63: cos’altro, visto che l’alunno di oggi dovrà scegliere l’indirizzo a 12 anni? Che dire poi di una scuola superiore, dove lo studente può venire affidato all’industria perchè lo usi a piacer suo, salvo una sorta di “tutoraggio” esterno della scuola, e dove i centri di formazione professionale gestiti da agenzie a capitale misto pubblico-privato e dagli enti locali diventano il modello surretizio dell’istruzione professionale statale? Una scuola superiore il cui ciclo formativo perde comunque un anno ed ove le materie classiche ed il sapere critico vengono sempre più pesantemente compressi, proprio nel momento in cui ce ne sarebbe maggior bisogno. In un’epoca nella quale sull’altare della riduzione della spesa si gioca a dadi con le carriere dei docenti tramite riconversioni selvagge ed accorpamenti di classi di concorso, attraverso un sostanziale spreco delle professionalità acquisite ed una mobilità di cattedra che non tiene conto nè della formazione culturale, nè delle competenze maturate, è peraltro la dignità della scuola nel suo complesso a venire pesantemente colpita.

Sul “disordino” dei Cicli l’Unicobas rimane quindi fermo su posizioni di critica pesante, di protesta e di proposta. Deve rientrare nell’obbligo l’ultimo anno della scuola dell’infanzia (unico passaggio veramente condivisibile del primo disegno di legge Berlinguer, giubilato in corso d’opera). Occorre creare un veicolo di transito per gli insegnanti laureati di scuola media ed elementare al ciclo secondario ed introdurre finalmente il ruolo unico docente, inteso come parità di orario (18 h.) e salario sin dalle materne (è assurdo che quel 60% di insegnanti elementari laureati non possa utilizzare tale titolo neanche ai fini della ricostruzione della carriera, mentre i diplomati di scuola media hanno ottenuto la parificazione stipendiale e normativa con i laureati sin dal 1974, cosa peraltro non concessa invece agli ITP del superiore). Il ruolo unico non è visto dall’Unicobas come “sanatoria” o semplice perequazione, bensì come totale riconoscimento di pari funzione e pari dignità degli insegnamenti e dei vari gradi di Scuola, sino all’Università, nell’ambito del necessario riconoscimento dell’unitarietà del ciclo formativo. Va promosso un anno di orientamento pre-universitario sottratto alle baronie accademiche e va previsto infine, comunque, l’assorbimento del personale di scuola superiore (e non solo) eventualmente in esubero, negli atenei in funzioni propedeutiche alla formazione di base dei docenti. Occorre maggiore attenzione alle punte d’eccellenza del nostro ordinamento scolastico ed alle professionalità e competenze acquisite dagli insegnanti, nonché alle necessità della popolazione studentesca che richiedono una preparazione adeguata in ordine alle varie fasi di crescita: perciò non deve essere perso neanche un posto delle attuali elementari e va calibrato l’intervento sulle fasce d’età. Così va creata l’opportunità di una maggiore attenzione alle fasi critiche ed alle necessità di individualizzazione della didattica, utilizzando gli insegnanti “in più” non per le supplenze o in funzione di “tappabuchismo spicciolo”. Per questo rivendichiamo la riduzione del numero di alunni per classe (max 20, 15 in presenza di portatore di handicap). Va, come nei paesi più progrediti, colta l’occasione data dal calo delle nascite per creare un vero organico maggiorato e funzionale di istituto: non buono per tutti gli usi (aumento dei carichi di lavoro e delle competenze e restringimento di fatto degli organici), bensì assegnando risorse aggiuntive di personale alle scuole, per interventi nelle zone a rischio, recupero ed approfondimento generalizzati, per far uscire gli insegnanti DOP da un ruolo secondario e mortificante e risolvere (assumendo) il problema strutturale del precariato e delle supplenze estemporanee, al fine di poter sviluppare progetti mirati, nello spirito istitutivo della L. 270/82, per impedire che l’autonomia si risolva in maggiori oneri gratis et amore Dei per il personale attuale.

Per il sostegno, occorre ridare piena vigenza alla L. 517/77 (nullificata dalla Finanziaria ‘98 con una riparametrazione indecorosa del rapporto alunni classe e portatori di handicap-insegnanti), superando poi le rigide scansioni della L. 104/92 (artt. 3 e 4), garantendo la continuità didattica sul sostegno, istituendo corsi pubblici gratuiti e riconoscendo valore abilitante ai titoli polivalenti, al fine di impedire la riconversione selvaggia sul sostegno (che ripropone l’involuzione verso il custodialismo e prepara il terreno alla reintroduzione delle classi differenziali). Va infine restituita dignità ad ogni segmento di scuola (si citano ad esempio i professionali, oggi pesantemente colpiti) ed innalzato l’obbligo sino a 18 anni.

L’EQUIVOCO DI “FORMAZIONE” ED ESAMI IN ITINERE

L’attacco alla funzione docente prende le mosse da un equivoco voluto da “addetti ai lavori” e mestieranti sindacali interessati al proprio personale intervento nella cosiddetta “formazione in itinere”. In realtà non si tratta che di un controsenso. Non esiste, in quanto contraddizione in termini, la possibilità di una “formazione in servizio” effettivamente utilizzabile. Va individuata una quota percentuale per consentire a tutti la fruizione quinquennale dell’anno sabatico in sede universitaria ed europea. Ed è comunque assurdo che si tenda a non riconoscere l’aggiornamento svolto in proprio e che non siano previsti momenti di formazione in itinere autogestiti, con esonero dal servizio, per un monte ore deciso dai Collegi dei Docenti, per percorsi in comune fra gli insegnanti di ordini di scuola contigui, onde mettere a confronto ed uniformare sulle classi di raccordo, nei limiti del possibile, l’approccio alle aree disciplinari. Occorre demolire i carrozzoni IRRSAE, i cui fondi devono essere messi direttamente a disposizione degli istituti.

Lo stato, viceversa, non si occupa affatto della formazione di base. Da qui trae avvio la vergogna del “concorsone”, riservato peraltro a docenti con almeno 10 anni di “ruolo” e quindi già utilizzati da 18 anni (la media di precariato pro-capite è di 8 anni). Dall’idea che si debba intervenire sui docenti dopo che sono stati assunti.

Occorre invece una seria selezione a monte ed una ben diversa attenzione alla preparazione del personale da assumere. Per questo, anche alla luce delle recenti vicende, siamo per l’abolizione dei concorsi, nella convinzione dell’utilità di lauree quadri-quinquennali (per tutti i docenti) direttamente abilitanti, con almeno un biennio ad indirizzo didattico, esami obbligatori di psicologia dell’età evolutiva, un anno di tirocinio pratico e tesi a carattere metodologico, che diano accesso a graduatorie provinciali per l’assunzione. Nel frattempo si assumano i precari, ma con un selettivo tutoraggio sul campo, piuttosto che con farsesche abilitazioni riservate, attuate sempre secondo la logica del corso-concorso. Le prove non possono essere estemporanee e la valutazione va consolidata in itinere. La scuola non deve assorbire chiunque aspiri ad un semplice posto di lavoro: vi si esercita una professione ove si può persino essere equivalenti ad Einstein nel campo dei saperi, ma non risultare ugualmente adatti nell’interazione didattica, che richiede adeguate capacità e competenze pedagogiche, relazionali ed empatiche.

CREARE IL CORPUS DEONTOLOGICO DELLA FUNZIONE DOCENTE

Qui ed ora, occorre affrontare l’ambito specifico di una funzione che, a dispetto dell’enorme portata sociale, è stata piegata ad un trattamento ed a metri di giudizio meramente impiegatizi. Il lavoro dei docenti, sul quale, a dispetto di tutto, si regge la scuola italiana, non è facilmente “valutabile”. Standard formativi e congetture simili sono stati abbandonati da più di 15 anni negli Stati Uniti e nel Canada, perchè hanno compromesso ed omologato in basso le competenze degli studenti. Un docente non produce bulloni, nè attende a pratiche d’ufficio. Per questo non può venire giudicato secondo criteri quantitativi o metri “produttivistici”. Occorre una scuola ove l’insegnante non sia più considerato mero trasmettitore di nozioni, ma creatore e costruttore di progetti educativi, agente ed attore della ricerca culturale. Vergognoso, invero, è operare sulla confusione dei ruoli, facendo credere a genitori ed alunni di potere, con qualche profitto, sindacare nell’ambito delle materie riservate al ruolo professionale dei docenti. Invece, complici i sindacati che ci hanno impiegatizzati, queste categorie vengono esortate addirittura a dare giudizi di merito. Così, con la scusa della ”autonomia”, si introduce un “POF” onnicomprensivo e lesivo della libertà d’insegnamento (che fa il paio col “PEI”, per questo già messo in mora dal TAR). Nell’ambito di un contratto indecente che neanche fissa più l’orario dei docenti, si assegna al piano di istituto l’articolazione delle scuole “autonome”, in realtà eteronomamente guidate da capi di istituto assurti al ruolo di dirigenti (l’accentramento dei poteri è il contrario dell’autonomia partecipativa). Ma nel gioco della bagarre demagogica, la truffa viene introdotta togliendo da Settembre al Collegio Docenti la titolarità a decidere in via ultimativa sull’ambito metodologico-didattico, assegnando tale potere al Consiglio di Circolo/Istituto, un organismo ove la componente docente è in minoranza (e con la riforma degli organi collegiali, lo sarà ancora di più). Così, tipo di insegnamento e orario verranno col tempo subordinati al gradimento di soggetti esterni, privi delle competenze necessarie a decidere, ma spesso desiderosi di trasformare la scuola in un parcheggio, ove il docente-sitter surroghi la famiglia, a scapito degli insegnamenti e dello stesso ambito formativo. Alla fine si è poi chiamati a garantire una promozione pressoché sicura! Ecco il trionfo della logica aberrante della scuola come mero diplomificio burocratico (...tanto poi vorrebbero eliminare persino il valore legale dei titoli di studio!). Si viene abbassando il livello della scuola pubblica affinché questa diventi un surrogato di massa, e perciò di second’ordine, delle scuole private (nuovo assurdo modello: istituti che chiedono fondi per non morire, perchè abbandonati e con percentuali di iscrizioni risibili rispetto al resto d’Europa), assistenziali e permissive solo con l’elite, sottraendo al pubblico il piano di eccellenza che vanta nei confronti del sistema di mercificazione della cultura, ove invece le punte avanzate sono riservate a pochi ed al prezzo dell’accettazione di stili educativi di tendenza, fortemente segnati ideologicamente. In analogia si vorrebbe che le scuole pubbliche si facessero “concorrenza” fra loro, per sedimentare istituti di prima e seconda classe.

E’ appunto l’aberrazione della scuola come servizio, già introdotta dall’omonima carta a dispregio della Costituzione (che definisce invece Scuola ed Università quali istituzioni). Nel vergognoso trand di riduzione della spesa, vengono colpiti gli alunni così come i docenti: ma mentre si consente l’aumento dei costi di mense, libri e trasporti, si crea come diversivo la contrapposizione fra docenti e discenti. In un’istituzione non esistono “operatori ed utenti”: si tratta di un corpo vivo di cittadini, regolati nel nostro caso da due sole grandi norme: libertà d’insegnamento e d’apprendimento. Due capisaldi che la controparte politica e confindustriale, intende mettere a servizio di esigenze a senso unico ove dominano incontrastati arroganza e profitto, deprofessionalizzazione e negazione di ogni garanzia d’impiego: flessibilità e precarietà intesi come dato “strutturale”, l’instabilità lavorativa a vita come elemento di “progresso”. Ecco perchè fa paura il sapere critico. La scuola è sempre stata uno dei motori principali di progresso nella società civile, perciò la si vuole subordinare ed omologare. E tutte le offese portate ad un settore che è stato all’avanguardia (i nostri diplomati erano i migliori d’Europa) e che per molti versi rimane ad alti livelli (vedi l’esempio già trattato della scuola elementare), servono da corollario a questa improvvida strategia, che sta portando l’Italia a perdere costantemente competitività col resto del mondo. Non ne è responsabile “l’inadeguatezza” della scuola, al contrario è la sua continua depauperizzazione, lo sono lo stato e gli interessi privati, in un Paese che in Europa spende meno di qualunque altro per istruzione e ricerca. L’Unicobas rivendica l’aumento organico degli stanziamenti per la scuola, almeno sino al 5% del PIL. Siamo fortemente convinti che l’istruzione pubblica sia preziosa nel garantire un pensiero forte e plurale, anche su base multietnica, l’unica istituzione in grado, in un momento di grande crisi ideale e riemersione di fondamentalismi religiosi e laici, di assumere i principi di un’educazione volta alla solidarietà ed alla tolleranza. Il mondo della scuola pubblica, pluralistico per definizione, sia nella qualificata componente laica, che nella forte ed attenta presenza cattolica (Don Milani docet!), è in grande maggioranza consapevole del fatto che sul valore dell’istruzione non si può trattare: la cultura non è merce! L’Unicobas ha sentito il dovere morale di denunciare il continuo degrado delle strutture, l’apertura agli sponsor privati ed il tentativo di subordinare il pubblico ad interessi di parte. Una vera autonomia scolastica è cosa ben diversa da quella sorta di “autogestione della miseria” che ci viene propinata. Nella nostra proposta identifichiamo in positivo tre assi portanti.

Autonomia didattica, attraverso l’autodeterminazione del monte ore riservato ad ogni materia, piena attuazione delle libertà d’insegnamento ed apprendimento, percorsi e strategie didattiche autogestiti e posti in relazione con le specificità della realtà sociale, posibilità di superare le rigide scansioni dei gruppi-classe, per consentire, da un lato, laboratori ed approfondimenti specifici, dall’altro momenti di aggregazione anche su obiettivi non strettamente curricolari.

Autonomia amministrativa e di gestione, decentramento democratico, trasferimento dei poteri dalle gerarchie agli organismi elettivi, oggi quasi unicamente consultivi: Consigli Scolastici di Distretto e Provinciali, Consiglio Nazionale della Pubblica Istruzione. Difesa di poteri e prerogative del Collegio dei Docenti. Sdoppiamento delle funzioni di gestione: direttore amministrativo (ex segretario) e coordinatore didattico elettivo (passaggio nei ruoli ispettivi della figura del dirigente scolastico). Revisione del piano di dimensionamento, con maggiore attenzione al territorio ed alle piccole unità scolastiche.

Autonomia finanziaria: acquisita la personalità giuridica a tutte le scuole, maggiori finanziamenti pubblici (non richiesti alle famiglie), adeguati e non al ribasso (ben di più di quanto venisse dato prima del recente, inqualificabile, taglio). Partecipazione di forze sociali non operanti a scopo di lucro, esclusione della committenza privata. Esclusione del finanziamento pubblico delle scuole private.

Per queste proposte veniamo tacciati di essere “utopisti”, ma ricordiamo ai Confederali che il coordinatore elettivo era nella loro piattaforma degli anni ‘70, nonché allo SNALS di essere nato sull’onda della lotta contro la qualifica funzionale, le note redatte dai presidi a fine anno che proprio lo SNALS ha chiesto nel ‘95 venissero ripristinate! Nè ci sembrano “utopie” il diritto (che hanno quasi tutti, tranne i lavoratori della scuola) ad anticipi sulla liquidazione, l’ingresso gratuito nei musei per docenti e studenti (come in tutta Europa), sgravi fiscali per l’acquisto di libri. Eppure, grazie a loro, neppure tali obiettivi sono stati conseguiti.

Veniamo anche accusati di “corporativismo”, ma mentre noi lottiamo per difendere il tempo pieno ed i diritti dei disabili (due battaglie di civiltà fra le tante), Confederali e SNALS acconsentono alla riduzione delle offerte didattiche, al taglio delle classi ed all’utilizzazione di personale non specializzato sulle cattedre di sostegno.

A fronte di tutto ciò è quanto mai necessario che la categoria prenda coscienza, afferri e corregga il proprio futuro. Non sarebbe utile sfuggire al confronto sulla questione della “qualità”.

Premesso che è prioritario l’ottenimento di un salario europeo, occorre sviluppare una grande riflessione sul codice deontologico della funzione docente, rivendicando dignità di professionisti. Fra le grandi professioni non esistono le subordinazioni alle quali stanno piegando gli insegnanti. Un avvocato non viene “valutato” dal magistrato e nessuno si sognerebbe mai di costringere i medici a redigere anamnesi e terapie sotto la dettatura dei “pazienti”. Al tempo stesso, sia l’avvocato che il medico, non possono esercitare, neanche privatamente, senza aver superato l’esame di stato. Eppure si vorrebbe un ritorno sotto mentite spoglie alle note di qualifica funzionale redatte dai presidi, se non addirittura la valutazione degli studenti! Eppure chiunque - persino neo laureati e laureandi - può esercitare la professione docente, sia in proprio che nelle scuole cosiddette “paritarie”, alle quali Berlinguer ha lasciato la possibilità di assumere “al nero” un 40% di “volontari” (evidentemente non bastava la violazione dell’art. 33 della Costituzione operata con un finanziamento strutturale delle scuole private mascherata da legge di “parità”)! La definizione della deontologia avviene all’interno degli ambiti professionali. Ecco perchè l’Unicobas ha avanzato provocatoriamente la proposta della creazione di un ordine dei docenti, in un senso ben diverso da quello segnato da ordini usati come strumenti di copertura e di potere: magari nella sanità esistessero gli organi collegiali e l’attenzione che - con tutti i limiti di una categoria mandata allo sbaraglio e spesso afflitta semmai da complessi di colpa indotti da logiche vetero operaiste (vedi le accuse di “corporativismo” rivolte dai Cobas contro l’ordine) - nella scuola è riservata agli alunni! Ma non serve la demagogia. Non si può sfuggire alla necessità di una forte selezione di base (per una scuola che non certo “casualmente” viene progressivamente delegittimata da quando è divenuta veicolo di progresso di massa) e non si può certo negare “massimalisticamente” (perchè questo sarebbe il peggiore “corporativismo”) la necessità di un osservatorio della società civile sulla scuola, però quale struttura super partes e non gerarchica, comprendente tutte le componenti: è necessario discutere di come la libertà d’insegnamento si relazioni alla libertà di apprendimento, è imprescindibile il rispetto fra i ruoli e non solo dei ruoli.

LA QUESTIONE DELLE RETRIBUZIONI

La riduzione della retribuzione dei docenti italiani al livello più basso in Europa (e non solo, visto che oltre a percepire un terzo dei francesi, la metà dei tedeschi ed un 30% in meno degli spagnoli, abbiamo persino stipendi inferiori ai coreani), lo stravolgimento dello status e del ruolo, derivano dalla negazione dello specifico della funzione docente. Un lavoro atipico, estremamente concentrato (assorbente dal primo all’ultimo momento di cattedra), viene trattato alla stregua di un impegno a carattere estensivo (dilazionabile e “governabile”), come quello impiegatizio. Da questo nascono il tentativo di farci assumere maggiori carichi orari e di ridurci i periodi di astensione dal lavoro (mentre in sede di trattativa non emerge mai il lavoro sommerso) ed il generale “cottimismo” contrattuale (presente e che verrà), come se la qualità del lavoro docente possa essere la stessa a 18 o 30 ore. Da qui nascono i fondi “disincentivanti” e le “finzioni obiettivo”, con l’assurdo che, qualora esse non siano destinate a chi abbia trovato il modo di “fare tutto tranne l’unica cosa che vale la pena di fare” nella scuola (insegnare), obbligano chi ne è incaricato ad una retribuzione ancora più bassa di quanto prenderebbe se le due o tre ore in più di docenza che gli ha assegnato il Collegio Docenti venissero retribuite col fondo di istituto. Ecco perchè ai lavoratori della scuola è stato privatizzato il rapporto di lavoro, introducendo una visione falso-produttivistica di stampo industrialista, la cassa integrazione per “esubero”, l’eliminazione dell’assunzione di ruolo e la licenziabilità d’ufficio, mentre i dipendenti del comparto università (come successo per militari, magistrati ed altri) sono rimasti fuori dal campo di vigenza del DL.29/93 (ed ora è la volta dei dirigenti scolastici, con la loro area di contrattazione “non privatizzata”). E’ l’applicazione contrattuale della trasformazione in servizio: le altre istituzioni sono state “salvate”, la scuola no. Imponendoci i dettami del DL.29, eliminando quindi gli scatti di anzianità biennali, con il CCNL del ‘95 ci hanno dato di meno di quanto avremmo avuto se il contratto non ci fosse stato. Inutile ricordare che il prezioso regalo lo dobbiamo ai soliti sindacati, gli stessi che, mentre venivano da noi ad esortarci ai sacrifici e ad introiti dall’1.5 al 3%, andavano firmando aumenti dell’11% per i dipendenti della banca d’Italia che, bontà loro, hanno solo 16 mensilità e la pensione pari all’ultimo stipendio, neanche facendo media sugli ultimi 5 anni, come era per noi prima della controriforma che ci impone un ricalcolo sull’intero iter lavorativo per tutti gli anni dal ‘92 in poi, riservando ai più giovani lo spettro di una pensione sociale (a proposito di quiescenza, l’Unicobas si batte per il recupero dei diritti acquisiti prima della controriforma, per il riaggancio delle pensioni alle dinamiche salariali e di queste e degli stipendi ai movimenti inflattivi; infine per uno “scivolo” settennale analogo a quello concesso in ferrovia e nelle industrie parastatali). Per lo stesso motivo nell’ultimo contratto sono state fornite indennità specifiche solo a dirigenti scolastici e direttori amministrativi (ex segretari), mentre nel ‘95 hanno anche cancellato quell’indennità di funzione docente che strappammo con le lotte alla fine degli anni ‘80. Dalla medesima causa deriva la trovata del “concorso a premi”: i sei milioni annui solo per il 20% (o 30%) della parte di categoria con 10 anni di “ruolo”.

Il fondo, in quest’operazione, è stato toccato proprio con l’idea, fissata a priori, che l’80% dei docenti fosse incapace di superare i quiz di Vertecchi. Ma la vergogna massima è rappresentata dal fatto che si sapeva bene di dare qualcosa a qualcuno per non dare il giusto a tutti. E si va avanti così. Lo stesso De Mauro, che ammette quotidianamente l’esiguità dello stipendio dei docenti, insiste, come già Berlinguer dopo il 17 Febbraio, a trattare con gli stessi sindacati che avevano voluto la differenziazione del 20%, come se nulla fosse stato. In un Paese “normale” si sarebbe cambiato radicalmente indirizzo, nella nostra subnormale repubblica invece si fa finta di niente. Chissa che i docenti non se accorgano... Anche se la nostra richiesta immediata è semplicemente quella di distribuire i 1.260 miliardi del “concorsaccio” per ricreare una prima indennità di funzione docente (naturalmente si rivendica anche una Finanziaria con stanziamenti adeguati per la già scaduta parte economica dell’ultimo CCNL, al fine di potenziare l’indennità)!

La vergogna continua perchè continua è l’operazione di discredito dei docenti: infatti al concorsone vogliono sostituire altri elementi di “valutazione”. E la proposta di De Mauro, di far giudicare i docenti dai presidi è, se possibile, ancora più negativa. Ma (come al solito) i sindacati di stato non sono da meno: inventano, via via, “patenti didattiche” a punti (un bollino ogni corso presso gli IRRSAE, dei quali sono gli “azionisti” di maggioranza), esami “alla francese” (invece di uno solo ... uno ogni 3 anni) da sostenersi presso ispettori coadiuvati dai presidi, “valutazioni di gradimento” di genitori e studenti...

GLI ATA

Il trattamento del personale ATA non è meno discriminatorio. L’Unicobas è il sindacato delle funzioni, e difende tutte le professionalità del personale della scuola. Per gli ATA occorre la revisione dell’art.7 della L. 426/90, che oggi impedisce le sostituzioni, una retribuzione legata al mansionario per i collaboratori amministrativi che espletano i compiti del direttore amministrativo, uno sviluppo (anche retributivo) dell’ambito (non riconosciuto) di coadiuzione educativa per ausiliari e tecnici, la riduzione d’orario a 35 ore, un adeguamento salariale generale degno dell’Europa, il rispetto dei diritti acquisiti di quanti provengono dagli Enti Locali. Mansionario ATA di competenza dell’Assemblea del personale. Perequazione stipendiale tra ATA della Scuola e dell’Università, nelle condizioni economiche e normative più vantaggiose. Ampliamento degli organici, con riferimento al numero delle classi e dei locali.

CHE FARE?

E’ evidente che la partita si gioca tutta sul campo sindacale. La categoria, da questo punto di vista sino a poco tempo fa particolarmente distratta, ha finalmente capito che per cambiare la propria condizione deve togliere la rappresentanza a CGIL, CISL, UIL e SNALS. Loro inventano i noti contratti e poi garantiscono che questi “passino” sulle nostre teste. Loro dicono di essere rappresentativi del mondo della scuola, ed in assenza di un blocco di iscrizioni almeno pari al loro, lo sono, ma solo perchè insieme hanno la maggioranza di quella minoranza (35%) che è sindacalizzata. Lo sono perchè la maggioranza, che è contro di loro, pensa di combatterli non sindacalizzandosi, mentre proprio così si fa governare. Loro lo sanno, e per questo (connivente il governo) hanno rinviato le elezioni che devono definire la rappresentanza sindacale, dal Novembre 1998 al Dicembre di quest’anno. Lo sanno, e quindi hanno fatto approvare una legge che singolarmente non si accontenta del risultato delle elezioni, ma misura la rappresentatività facendo media fra voti e percentuale di iscritti. E, appena per venire riconosciuti, occorre il 5% di media. Così un sindacato giovane come il nostro deve alzare la percentuale dei voti per compensare la carenza di iscritti, mentre loro, solo raggiungendo il 10% sul totale dei sindacalizzati, hanno il 5% garantito anche a voti zero. Poco importa se il 10 % dei voti è numericamente di molto superiore al 10 % dei sindacalizzati! Hanno fatto rinviare le elezioni, anche perchè due anni fa andavano tenute a livello provinciale, mentre oggi, con la scusa dell’autonomia, le impongono di istituto: 11.000 in Italia, anche dopo la falcidia del disgraziato piano di “dimensionamento” (che siamo comunque riusciti a contrastare in varie regioni). E bisogna presentare una lista in ogni scuola. Chi non ottiene la media nazionale è fuori da tutto: sarebbe come se i partiti che non avessero da Ragusa a Bolzano una media spuria calcolata fra voti ed iscritti (!) perdessero il diritto di acquisire seggi anche nei consigli regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali, pur avendo magari vinto le corrispettive elezioni locali! Confederali ed “Autonomi” hanno sedi ovunque, garantite dai loro partiti di riferimento (anche lo SNALS, che dopo Pomicino è passato a Mastella) e dagli iscritti degli altri settori. Hanno 2.500 distaccati nel pubblico impiego che lavorano a tempo pieno mentre, con la scusa della (ancora) bassa percentuale di iscritti, a chi si oppone non vengono dati neanche permessi orari e sono vietate da Ottobre persino le assemblee sindacali in orario di servizio.

Eppure la scuola ce la può fare, a condizione che si mostri all’altezza della situazione. Le elezioni RSU sono, nonostante tutto, uno strumento eccezionale nelle mani della categoria. Questo devono capire i colleghi. Occorre farsi parte attiva in una campagna elettorale ove vince chi presenta più liste. E le liste devono necessariamente essere presentate a livello di singolo istituto, da sostenitori e candidati in loco. Non possono “calare” da fuori. Occorre l’impegno di tutti. Se la categoria è stanca di venire sovradeterminata, deve dimostrare il coraggio e l’attitudine per autodeterminare una nuova rappresentanza sindacale. Per fare ciò dobbiamo prendere in mano il nostro destino, scuola per scuola.

Non è certo possibile affidarsi al delegato sindacale che Confederali o SNALS troveranno comunque, offrendogli permessi e favori, il quale, presentandosi come il “collega qualsiasi” chiederà firme per la sua lista, naturalmente intitolata “solo per convenienza”, se non “per caso”, ad uno dei soliti sindacati. Il gioco della delega delle responsabilità, del “ci penso io”, su cui fanno affidamento gli apparati dei firmatari di contratto, deve venire interrotto una volta per tutte. In caso contrario vincerebbero ancora loro, ma questa volta la responsabilità sarebbe collettiva.

Risparmiamo alla scuola il panorama deleterio e cialtronesco di una categoria che persino dopo la firma del “concorsaccio” vota ancora una volta gli artefici della sua rovina! Risparmiamoci l’immagine squallida di un “collega medio” che bofonchia senza soluzione di continuità contro il trattamento miserabile, avendo però dato prova di non capire nulla presentando e votando la prima lista capitata “casualmente”: magari quella di CGIL, CISL, UIL, SNALS & Co. (i sindacati di partito).

L’indeterminatezza con la quale ancora troppi lavoratori della scuola guardano al mondo sindacale è causa di cecità nella categoria. L’idea che i sindacati siano “tutti uguali” è assolutamente assurda: la confusione che si opera fra firmatari di contratto e non, è indegna del mondo della cultura. Così come è ridicolo pensare che ai mali indotti da accordi vergognosi possano porre rimedio gli stessi che li hanno pensati e sottoscritti.

Anche il mondo eterogeneo del nuovo sindacalismo è spesso giudicato con scarsa attenzione. Non si presta ancora adeguata attenzione alla scelta sindacale operata dall’Unicobas (comunque la struttura di base col più alto numero di iscritti) con circa dieci anni di anticipo sui Cobas. La “direzione” dei Comitati di Base impediva la sindacalizzazione, favorendo così la ripresa dei Confederali e dello SNALS che facevano valere in sede di trattativa la propria formalizzazione. Le energie della categoria venivano condotte in un vicolo cieco, proprio quando, già sul finire degli anni ‘80, sarebbe bastato raccogliere iscrizioni nella più grande manifestazione che la scuola ricordi, per costruire il più forte sindacato della scuola. A godere di tali scelte furono i sindacalisti “ufficiali” infiltrati grazie all’indeterminatezza del “movimento” o quanti già utilizzavano i Comitati per brillanti carriere nel mondo dei partiti.

La dipendenza politica ha sempre segnato i Cobas, oggi funzionali al Partito della Rifondazione Comunista (molto attivo in questi giorni sia per presentare le liste RSU Cobas, che ancora quelle della CGIL, in un’assai sospetta collateralità). La scelta sindacale è stata operata dai Cobas solo per motivi di opportunità: con il mero “movimento”, senza offrire patrocinio sindacale, avrebbero perso ogni residuo rapporto con la categoria. L’atteggiamento verso l’Unicobas è stato per anni di feroce critica massimalista (eravamo rei di aver violato il tabù, colpevoli di fare sindacato). Tanto da rifiutare la nostra offerta di stringere un patto federativo paritetico per accomunare la rappresentanza ai fini giuridici, valido se si fosse costituito un nuovo soggetto prima dell’approvazione della legge Bassanini sulla questione sindacale, avvenuta nel Novembre ‘97. Tale legge, e gli accordi successivi sulle elezioni RSU, impediscono oggi qualsiasi cartello elettorale: “Ciascun sindacato ... può presentare liste solo per la propria sigla, non essendo ammesse liste congiunte di più sindacati ... Non possono essere presentate liste congiunte da parte di più organizzazioni sindacali ... salvo che esse abbiano costituito un nuovo soggetto sindacale.” (Art. 4, comma 3, parte II, Accordo RSU del 7.8.’98).

L’obiettivo primario resta per i Cobas quello di offrire supporto ad operazioni di partito. Del resto l’ottica è quella “tradizionale”: il progetto politico viene da fuori, lo elabora appunto il partito, anche a scapito del benessere degli insegnanti, che una certa sinistra ha sempre denigrati e sacrificati sull’altare di un anacronistico “operaismo”. Occorre ricordare che nel Dicembre ‘97 Rifondazione Comunista approvò la legge Finanziaria per il ‘98, con il taglio del 3% delle cattedre e dei posti ATA, dopo aver votato a favore dell’attuale “autonomia”, della legge liberticida sulla rappresentanza sindacale che premia i confederali e i loro amici impedendoci persino le assemblee in orario di servizio, nonché del blocco dei pensionamenti nella scuola.

Per le loro ascendenze ideologiche i Cobas sono dichiaratamente contrari all’uscita della scuola dal cosiddetto “pubblico impiego” (primo elemento della nostra proposta, l’unico in grado di farci riottenere gli scatti d’anzianità soppressi dal DL 29/93), nonché alla creazione di un ordine degli insegnanti. In tal modo essi negano il ruolo istituzionale riconosciuto dalla Costituzione all’istruzione pubblica, nonché la specificità della funzione docente. Proprio come i loro cugini della CGIL, vedono il lavoro dei professionisti dell’educazione inserito in un calderone indeterminato ove domina il ceto impiegatizio, e non si battono per l’unico trattamento costituzionalmente corretto: perchè, al pari dell’istituzione Università, la Scuola venga finalmente sottratta (interamente, come comparto) alla privatizzazione del rapporto di lavoro ed alla perversa logica del “servizio”, uscendo dal campo di vigenza del DL 29/93.

Della diaspora Cobas fanno parte altre sigle infinitesimali, tutte politicamente orientate. Li vediamo spesso schierati insieme in piazza, nel patetico tentativo di gestire con i “servizi d’ordine” le manifestazioni degli insegnanti, come fossero nelle piazze studentesche degli anni ‘70. Emblematico il caso della CUB-scuola, aderente ad una confederazione egemonizzata dal sindacato RdB-CUB, di matrice nostalgico-staliniana e firmatario di contratto. Con la CUB i Cobas hanno sempre mantenuto stretti rapporti. Del resto la CUB li ha portati alle contrattazioni per il CCNL del ‘95, alle quali le RdB erano state invitate (in virtù di leggi assurde) per la maggiore rappresentatività nei comparti “Parastato” e “Vigili del Fuoco”. La vicenda si concluse con la firma del contratto scuola da parte delle RdB-CUB, quello che eliminò gli scatti di anzianità (che non siglò neppure lo SNALS). Come si vede, la coerenza non è patrimonio di tutto il “sindacalismo alternativo”.

Di contro, non può essere apprezzata una Gilda che, persino nella storica giornata del 17 Febbraio, invita ed applaude l’On. Fini, presidente di Alleanza Nazionale, atteso che la privatizzazione della scuola ed il finanziamento pubblico degli esamifici privati sono obiettivi quantomai propri della compagine di centro-destra. Del resto la Gilda non ha mai partecipato alle numerose manifestazioni, promosse in questi anni dall’Unicobas e da un ampio arco di forze contro la legge di “parità” ed il finanziamento statale dell’istruzione privata, nè s’è mai pronunciata sulla questione. E’ sconcertante vedere soccombere la Gilda ad un pragmatismo povero, incline alla mediazione al ribasso ed incapace di alzare la testa sulle grandi questioni, come anche sul Riordino dei Cicli. Anche qui una visione che non condividiamo: le associazioni “fanno lobby”, progetti e grandi riforme li fa il parlamento e non bisogna intromettersi. Di contro, dalla piattaforma di quest’organizzazione in forte crisi interna, sono già spariti l’anno sabatico e l’ordine dei docenti, mentre vi si prevedono, sotto mutata veste, le “figure di sistema”. Non sono accettabili le chiusure aprioristiche di una struttura che mostra forti resistenze avverso il ruolo unico, risulta incline a dividere fra docenti di “serie A e serie B”, ha deciso di non rappresentare il personale ATA.

L’unica strada praticabile è quella del sindacalismo libertario e indipendente, non cinghia di trasmissione dei partiti politici. Quella intrapresa dall’Unicobas, sindacato senza pregiudizi, attento all’evoluzione della società civile, scevro da diktat o sovradeterminazioni ideologiche, costruito dal basso ma organicamente capace di tener testa alle grandi organizzazioni della svendita consociativa; solidarista, ma capace di difendere in modo appropriato ognuna delle professionalità della scuola, a partire dallo sviluppo e dalla rivalutazione delle funzioni. I progetti per l’istruzione pubblica devono venire discussi prima di tutto con chi vive nella scuola, senza deleghe aprioristiche a nulla e nessuno, senza tirare “volate” ad alcun apparato esterno, per questo l’Unicobas è solo un sindacato, il vostro sindacato. Peraltro, darsi una nuova rappresentanza sindacale, in un Paese nel quale è stata possibile la svendita complessiva degli interessi dei lavoratori proprio grazie all’acquiescenza ed al consociativismo dei sindacati “maggiormente rappresentativi” (ancora stabilmente al potere ed i cui maggiori esponenti sono tutti in carriera per diventare ministri o leader di coalizioni), è l’unico modo per cambiare davvero politica.

Unicamente un nuovo e più fattivo scatto d’orgoglio, un’aperta rivendicazione della dignità professionale, può conseguire un adeguato riconoscimento di responsabilità e funzioni. Non si può vincere con confusioni e strumentalizzazioni politiche, o divisi per “ambiti” e da obiettivi parziali, bensì coniugando la lotta per la salvaguardia della scuola pubblica con quella per il riconoscimento della sua centralità sociale e professionale.

Nella legge sulla rappresentanza sindacale v’è un solo istituto giusto: non saranno più validi contratti sottoscritti da sigle che non rappresentino almeno il 51% dei sindacalizzati o il 60% dei voti validi in queste elezioni per le Rappresentanze Sindacali Unitarie. I sindacati “peseranno” in base agli iscritti e (finalmente) ai voti che avranno a Dicembre: cambiare veramente la politica scolastica è dunque possibile, modificando i rapporti di forza, qui ed ora! Con queste elezioni costruiamo realmente il nostro futuro.