Testo dell'intervista rilasciata al giornale "La vita scolastica"
da Stefano d'Errico (segretario nazionale dell'Unicobas scuola)

Prima domanda.
Eugenio Scalfari in un articolo su "Repubblica" del 25 luglio scorso Marco Biagi e le critiche della Chiesa, ha analizzato le idee del giurista bolognese Marco Biagi e quelle dei vescovi sulla questione del lavoro emerse in un incontro avvenuto il 25  gennaio, due mesi prima che il giurista bolognese venisse ucciso davanti al portone di casa. E ne ha tratto la seguente conclusione: "Per Biagi la variabile indipendente, cioè il dato che condiziona tutto il resto, era il mercato  e la logica dell'impresa, per i suoi interlocutori erano i diritti delle persone".
Nel confronto tra il ministro dell'istruzione e i sindacati sembra che si verifichi la stessa contrapposizione: da un parte il ministro che guarda al Ministero dell'istruzione come una grande impresa con tutto ciò che questo comporta, dall'altra i sindacati che insistono per tutelare i diritti dei
lavoratori. Insomma è finita la concertazione e la gestione concordata della scuola e si è aperta un'era nuova? E' così o è un'impressione sbagliata?

Risposta alla prima domanda
La cosa è complessa. La concertazione non finirà mai; sono invece i referenti del ministero che cambiano a seconda delle stagioni politiche.
Il male quindi resta, se per concertazione s’intende quel qualcosa di monodirezionale ed asfittico che ha caratterizzato le relazioni sindacali negli ultimi decenni. Segnatamente il monopolio delle contrattazioni assegnato ad alcuni sindacati: quelli della spartizione concertativa. Ed ogni diritto (persino quello di indire assemblee in orario si servizio) sottratto a chi si è posto “fuori dal coro”.
Ma in effetti v’è qualcosa di nuovo: un governo che vorrebbe collocare un gradino più giù tutti i sindacati, chiedendo paradossalmente a qualcuno di questi di aiutarlo nell’operazione. Ecco le radici del tentativo, in parte riuscito, di spaccare il fronte Confederale. La Moratti si è presentata subito nella veste di ministro con comportamenti antisindacali. Già a settembre 2000 aveva pensato di poter avocarsi materie di stretta competenza contrattuale, pretendendo un aumento d’ufficio a 24 ore settimanali del tempo di cattedra e di innalzare il tetto per la sostituzione per malattia a 31 giorni. L’aumento d’orario decadde nella giornata del nostro primo sciopero (il 19 ottobre) e la copertura per malattia scese a 16 giorni (sempre di più degli attuali 11 previsti per medie e superiori), ma ancora con la legge finanziaria l’attacco alla qualità della scuola continuò con il solo membro esterno nelle commissioni per la maturità, impegnato contestualmente in più commissioni: un occhio di riguardo per le scuole private, in gran numero oggi divenute “paritarie”, con l’eliminazione di quasi ogni controllo.
Purtroppo però né fra i Confederali, né nello SNALS, vi sono veri campioni dei diritti dei lavoratori, avendo il mercato e la logica dell’impresa irretito - aihnoi non solo per motivi “ideologici” - già da tempo i sindacati tradizionali, che hanno pesantemente contribuito in passato a porre le basi per un’assurda aziendalizzazione della scuola a detrimento di libertà d’insegnamento e d’apprendimento. Con quest’operazione nascono la trasformazione della scuola da istituzione (definizione costituzionale) a servizio (si ricordi l’omonima “carta”), la figura del “dirigente” a detrimento della collegialità, il declassamento del corpo docente da entità professionale a ceto impiegatizio, la privatizzazione del rapporto di lavoro … insomma un’autonomia intesa come subordinazione della scuola a logiche che le sono estranee per definizione, come se la cultura potesse venire trattata come una merce ed i suoi operatori fossero due volte ostaggi: del ceto politico che deve far trionfare la ragion di stato e dell’impresa, nonché della cosiddetta “utenza”, che li guarda dall’alto in basso perché remunerati con stipendi da Terzo Mondo. Il tutto in un Paese che spende percentuali irrisorie del PIL rispetto al resto del mondo avanzato, non solo per gli stipendi, ma per tutte le strutture dell’istruzione e della ricerca in generale. Così che a rimetterci è la società civile nel suo complesso, l’Italia perde competitività, e genitori ed alunni assistono alla crescita delle spese per i libri e le mense, sono costretti a registrare uno scadimento progressivo e vengono fatte passare per “riforme” tagli ed obbrobri.
Anche tutto ciò ha a che fare con i diritti, che nella scuola s’intrecciano con la questione della qualità. Ma la smania di modificare sconta sempre la logica del “costo-zero”. Così oggi, con il ritorno nelle elementari dell’insegnante prevalente a 21 ore ci fanno fare un pauroso salto indietro nella didattica per tagliare decine di migliaia di cattedre, come, ai tempi di Berlinguer, l’unificazione in un settennio primario con le medie avrebbe comportato l’eliminazione di altre decine di migliaia di insegnanti. Si percorre la strada della demagogia anche per l’ingresso anticipato a 2 anni e mezzo nella scuola dell’infanzia ed a 5 e mezzo nelle elementari: non si dice ai genitori che l’aumento dei carichi di lavoro sarebbe “gratis et amore dei” perché non si intende assumere nessun docente in più. Non si chiarisce che, nel primo caso, si tratterebbe di una trasformazione di parte delle materne in quegli asili nido che invece andrebbero potenziati a parte, ma che nulla hanno a che fare con il primo segmento educativo. Stessa cosa per quanto riguarda il tempo pieno, che si cerca di eliminare gradualmente con la riduzione del tempo scuola, a tutto vantaggio delle private.
V’è da dire che nell’ambito della funzione docente la qualità è inversamente proporzionale alla qualità ed il criterio del “cottimismo”, che assilla il mondo sindacale ed oggi la Moratti, è un’offesa alla prestazione professionale. Come dire: se vuoi qualcosa in più devi lavorare di più e con più alunni. Ma maggiori carichi di lavoro per una prestazione atipica come quella di chi insegna corrispondono fatalmente ad un calo di concentrazione e motivazione: noi non assembliamo bulloni e non ci si può giudicare con criteri quantitativi. Viceversa, il contratto nazionale di lavoro predeterminato dalla legge finanziaria dell’attuale governo, intende imporre la logica degli straordinari pagati oltre le 18 ore settimanali per coprire i buchi determinati dall’indecorosa decisione di non assumere migliaia di precari.
La logica di mercato prevale nel progetto di controriforma. Non siamo neanche di fronte al tentativo di farci tornare a prima del ‘63 e della media unica, cioè all’avviamento professionale. Se le parole hanno un significato, con l’addestramento professionale (cfr. documento Bertagna) si pensa a qualcosa di peggio: ad esempio allo “studente in affitto”. Infatti si superano gli attuali stages per introdurre una non meglio definita “alternanza scuola-lavoro”, che s’intende concretizzare in lunghi periodi di impegno subordinato (e gratuito) dell’utenza dei professionali direttamente nel mondo dell’impresa, con una scuola ridotta a far da spettatore esterno, salvo ricomprendere nel curricolo ciò che di curricolare ha ben poco: nient’altro che l’apprendistato. Inutile soffermarsi sul fatto che l’ambito didattico e formativo ne risulterebbe terribilmente impoverito, con una “scuola” a regime d’impresa, senza il “pericoloso” sapere critico, senza approfondimenti, priva di complessità e di interconnessioni. Ci dicono che tutto ciò sarebbe propedeutico all’inserimento occupazionale, ma in realtà non si tratterebbe altro che di un ritorno alla pratica ed al feticcio del monoprofessionalismo. Quanto di più negativo, in un mondo ove le competenze necessarie all’impiego nel mercato del lavoro mutano con una rapidità vertiginosa. Come concertato con regioni compiacenti e dichiarato recentissimamente da Bertagna, gli istituti professionali verrebbero ridotti a 240 ore annue di scuola “vera” (con 25 ore settimanali, si tratterebbe di poco più di 2 mesi), per destinare il resto al lavoro in azienda: vittime predestinate appunto gli studenti (attualmente il 25% della popolazione scolastica), nonché i loro insegnanti, perché negli anni, con la riforma, si ridurranno le cattedre ben oltre le attuali, già misere, previsioni d’organico.
Sul fronte dello stato giuridico e dello status dei docenti, il ministro-manager pensa ad un nuovo concorsone per la carriera. Anziché adeguamento retributivo europeo, pochi spiccioli solo a pochi, promossi con punteggi para-universitari: “aggregato” (“superdocente” chiamato a richiesta dal dirigente); “organizzatore” (figura priva di alunni, tramite la quale si troverebbe il modo per premiare chi trovi il modo per non fare l’unica cosa che vale la pena di fare nella scuola, e cioè insegnare, magari per andare a controllare come insegnano gli altri); “tutor” (unico legame fra scuola ed impresa, per studenti deprivati del curricolo).
 

Seconda domanda
Il ministro dell'istruzione di chiara di voler eliminare sprechi e inefficienze e indica anche con precisione dove intervenire. Uno di questi è il ritorno dei tanti insegnanti, dirigenti  e personale
amministrativo (18.000 unità) oggi distaccati presso altre amministrazioni, sindacati e associazioni, a scuola a fare il lavoro per cui sono stati assunti.
Quali sono, secondo il sindacato che lei rappresenta, gli sprchi da eliminare? Quale posizione ha sulla questione del personale da rimandare nelle scuole?

Risposta alla seconda domanda
Il ministro vende fumo. Siccome il “mestiere” del “sindacalista” è a volte mestiere socialmente inviso, spara boutades demagogiche. Ma la gente non sa che solo i sindacati concertativi e firmatari di contratto hanno il diritto ai distacchi ed ai permessi sindacali, così come si ignora che la legge vigente sulla rappresentanza sindacale non può certo essere disattesa da un ministro. In realtà la Moratti ha confermato comunque tutti i 1500 distacchi sindacali assegnati dalle norme a CGIL, CISL, UIL, SNALS e Gilda (che si spartiscono anche le quote percentuali che spetterebbero a noi) ed ha elargito tutti i 1000 comandi a spese dello stato previsti per le associazioni professionali spesso legate a tali sindacati, operando in merito uno screening totalmente discrezionale nel favorire quelle realtà vicine alla sua parte politica a danno delle altre, favorite in precedenza. Ed anche da questi noi siamo fuori. Le altre migliaia di unità non sono soggetti che operano al di fuori della scuola: sono docenti inabili alla funzione che lavorano come amministrativi, docenti riconvertiti su cattedre diverse da quelle di provenienza o personale distaccato in grazia di norme sull’autonomia che il ministro non ha minimamente toccato. Vi sono poi docenti ed ATA in aspettativa non retribuita che non gravano sulle casse dello stato. Il problema non è quello di creare capri espiatori, bensì quello di riequilibrare la fruizione dei diritti sindacali, oggi come ieri gestiti a senso unico. Ma di questo il ministro non si occupa. La legge sulla rappresentanza sindacale è una vera truffa. Sono state istituite le elezioni RSU, ma si misura la rappresentatività facendo media fra voti e percentuale di iscritti, ed occorre il 5%. Così un sindacato giovane deve alzare la percentuale di voti per compensare la carenza di iscritti, mentre i vecchi, solo raggiungendo il 10% sul totale dei sindacalizzati hanno il 5% garantito anche a voti zero. Poco importa se il 10% dei voti validi (70% del totale della categoria) è numericamente di molto superiore al 10% dei sindacalizzati (35% della categoria)! Le elezioni le impongono a livello di istituto: 11.000 in Italia e bisognerebbe presentare una lista per ogni singola scuola! Chi non ottiene la media nazionale è fuori da tutto: sarebbe come se i partiti che non avessero il 5% da Ragusa a Bolzano perché non hanno personale distaccato in grado di girare per far presentare liste in tutti i seggi elettorali d’Italia, per di più calcolato secondo una media spuria fra voti ed iscritti, perdessero persino il diritto di essere rappresentati nei consigli regionali, provinciali e comunali, pur essendo magari primi a livello locale! L’Unicobas a Roma è uno dei primi sindacati, ma non ha diritto neanche a partecipare alla contrattazione decentrata locale, né ad un permesso orario o ad indire assemblee in orario di servizio. Non esistono elezioni a collegio nazionale, regionale o provinciale! In Francia e Spagna, con gli iscritti ed i voti che già abbiamo, avremmo 40 distacchi, in Italia zero. Bella democrazia!

Terza domanda.
La professione dell'insegnante è l'unica che non prevede una reale carriera. L'ex  ministro dell'istruzione Luigi Berlinguer, a suo tempo, tentò di smuovere le acque con il famigerato "concorsone", ma ci rimise il posto. Non è arrivato il momento di affrontare seriamente il problema della carriera degli insegnanti? Il suo sindacato ha una proposta da fare?

Risposta alla terza domanda
Più che di carriera, parlerei della necessità di un trattamento adeguato allo specifico della funzione docente. S’è mai sentito di un ministro di Giustizia che abbia fatto valutare gli avvocati dai magistrati (o viceversa)? Eppure per i docenti si pensa spesso a valutazioni dei presidi-manager! S’è mai visto un ministro della Sanità proporre valutazioni a quiz per i medici? Per quanto ci riguarda, ricordiamoci di Berlinguer. C’è mai stato un ministro degli Interni che abbia dato incarico a qualcuno per scrivere le regole della libertà di stampa? Eppure la Moratti ha formato una commissione perché rediga il codice deontologico degli insegnanti.
E’ bene che si parli di codice deontologico, perché si riconosce di aver a che fare con professionisti, ma la questione è che i codici deontologici li scrivono gli ordini professionali. L’Unicobas vuole un ordine professionale dei docenti ed un contratto specifico per la scuola fuori dal pubblico impiego. Sulla scuola attuale gravano i dettami del DL 29/93 imposti a tutto il pubblico impiego, recepiti con il contratto ’95. Sono stati eliminati gli automatismi d’anzianità e con la trasformazione degli scatti biennali in gradoni sessennali e settennali, sono riusciti a farci avere meno di quanto avremmo avuto se avessimo conservato la situazione precedente.  E’ stata imposta la riconversione d’ufficio, spostando gli insegnanti di cattedra come se fossero travet, così che un tecnico-pratico di un laboratorio di ceramica lo si è potuto “riciclare” su una cattedra di geografia, mentre un insegnante di educazione tecnica delle medie è stato “adattato” sul sostegno, con buona pace dei precari specializzati lasciati a casa e dell’integrazione. Il “dirigente, inesistente all’Università (solo presidi elettivi), è stato trasformato contrattualmente in “datore di lavoro”. E’ stato eliminato persino il ruolo, assegnandoci la qualifica di “incaricati a tempo indeterminato”. Da tempo qualcuno chiede un contratto per i soli insegnanti della scuola, ma i docenti universitari, che non sono stati minimamente intaccati dalla “ristrutturazione”, non hanno avuto un contratto “separato”, sono semplicemente rimasti con lo status precedente. Per la scuola la cosa è diversa: privatizzati perché considerati “pubblico impiego”, resteremmo tali non uscendo dal pubblico impiego. Questo è l’unico modo per recuperare una posizione corretta: un contratto separato dentro il pubblico impiego non cambierebbe la collocazione e quindi non modificherebbe nulla.