Prima domanda.
Eugenio Scalfari in un articolo su "Repubblica" del 25 luglio scorso
Marco Biagi e le critiche della Chiesa, ha analizzato le idee del giurista
bolognese Marco Biagi e quelle dei vescovi sulla questione del lavoro emerse
in un incontro avvenuto il 25 gennaio, due mesi prima che il giurista
bolognese venisse ucciso davanti al portone di casa. E ne ha tratto la
seguente conclusione: "Per Biagi la variabile indipendente, cioè
il dato che condiziona tutto il resto, era il mercato e la logica
dell'impresa, per i suoi interlocutori erano i diritti delle persone".
Nel confronto tra il ministro dell'istruzione e i sindacati sembra
che si verifichi la stessa contrapposizione: da un parte il ministro che
guarda al Ministero dell'istruzione come una grande impresa con tutto ciò
che questo comporta, dall'altra i sindacati che insistono per tutelare
i diritti dei
lavoratori. Insomma è finita la concertazione e la gestione
concordata della scuola e si è aperta un'era nuova? E' così
o è un'impressione sbagliata?
Risposta alla prima domanda
La cosa è complessa. La concertazione
non finirà mai; sono invece i referenti del ministero che cambiano
a seconda delle stagioni politiche.
Il male quindi resta, se per concertazione s’intende
quel qualcosa di monodirezionale ed asfittico che ha caratterizzato le
relazioni sindacali negli ultimi decenni. Segnatamente il monopolio delle
contrattazioni assegnato ad alcuni sindacati: quelli della spartizione
concertativa. Ed ogni diritto (persino quello di indire assemblee in orario
si servizio) sottratto a chi si è posto “fuori dal coro”.
Ma in effetti v’è qualcosa di nuovo: un
governo che vorrebbe collocare un gradino più giù tutti i
sindacati, chiedendo paradossalmente a qualcuno di questi di aiutarlo nell’operazione.
Ecco le radici del tentativo, in parte riuscito, di spaccare il fronte
Confederale. La Moratti si è presentata subito nella veste di ministro
con comportamenti antisindacali. Già a settembre 2000 aveva pensato
di poter avocarsi materie di stretta competenza contrattuale, pretendendo
un aumento d’ufficio a 24 ore settimanali del tempo di cattedra e di innalzare
il tetto per la sostituzione per malattia a 31 giorni. L’aumento d’orario
decadde nella giornata del nostro primo sciopero (il 19 ottobre) e la copertura
per malattia scese a 16 giorni (sempre di più degli attuali 11 previsti
per medie e superiori), ma ancora con la legge finanziaria l’attacco alla
qualità della scuola continuò con il solo membro esterno
nelle commissioni per la maturità, impegnato contestualmente in
più commissioni: un occhio di riguardo per le scuole private, in
gran numero oggi divenute “paritarie”, con l’eliminazione di quasi ogni
controllo.
Purtroppo però né fra i Confederali,
né nello SNALS, vi sono veri campioni dei diritti dei lavoratori,
avendo il mercato e la logica dell’impresa irretito - aihnoi non solo per
motivi “ideologici” - già da tempo i sindacati tradizionali, che
hanno pesantemente contribuito in passato a porre le basi per un’assurda
aziendalizzazione della scuola a detrimento di libertà d’insegnamento
e d’apprendimento. Con quest’operazione nascono la trasformazione della
scuola da istituzione (definizione costituzionale) a servizio (si ricordi
l’omonima “carta”), la figura del “dirigente” a detrimento della collegialità,
il declassamento del corpo docente da entità professionale a ceto
impiegatizio, la privatizzazione del rapporto di lavoro … insomma un’autonomia
intesa come subordinazione della scuola a logiche che le sono estranee
per definizione, come se la cultura potesse venire trattata come una merce
ed i suoi operatori fossero due volte ostaggi: del ceto politico che deve
far trionfare la ragion di stato e dell’impresa, nonché della cosiddetta
“utenza”, che li guarda dall’alto in basso perché remunerati con
stipendi da Terzo Mondo. Il tutto in un Paese che spende percentuali irrisorie
del PIL rispetto al resto del mondo avanzato, non solo per gli stipendi,
ma per tutte le strutture dell’istruzione e della ricerca in generale.
Così che a rimetterci è la società civile nel suo
complesso, l’Italia perde competitività, e genitori ed alunni assistono
alla crescita delle spese per i libri e le mense, sono costretti a registrare
uno scadimento progressivo e vengono fatte passare per “riforme” tagli
ed obbrobri.
Anche tutto ciò ha a che fare con i diritti,
che nella scuola s’intrecciano con la questione della qualità. Ma
la smania di modificare sconta sempre la logica del “costo-zero”. Così
oggi, con il ritorno nelle elementari dell’insegnante prevalente a 21 ore
ci fanno fare un pauroso salto indietro nella didattica per tagliare decine
di migliaia di cattedre, come, ai tempi di Berlinguer, l’unificazione in
un settennio primario con le medie avrebbe comportato l’eliminazione di
altre decine di migliaia di insegnanti. Si percorre la strada della demagogia
anche per l’ingresso anticipato a 2 anni e mezzo nella scuola dell’infanzia
ed a 5 e mezzo nelle elementari: non si dice ai genitori che l’aumento
dei carichi di lavoro sarebbe “gratis et amore dei” perché non si
intende assumere nessun docente in più. Non si chiarisce che, nel
primo caso, si tratterebbe di una trasformazione di parte delle materne
in quegli asili nido che invece andrebbero potenziati a parte, ma che nulla
hanno a che fare con il primo segmento educativo. Stessa cosa per quanto
riguarda il tempo pieno, che si cerca di eliminare gradualmente con la
riduzione del tempo scuola, a tutto vantaggio delle private.
V’è da dire che nell’ambito della funzione
docente la qualità è inversamente proporzionale alla qualità
ed il criterio del “cottimismo”, che assilla il mondo sindacale ed oggi
la Moratti, è un’offesa alla prestazione professionale. Come dire:
se vuoi qualcosa in più devi lavorare di più e con più
alunni. Ma maggiori carichi di lavoro per una prestazione atipica come
quella di chi insegna corrispondono fatalmente ad un calo di concentrazione
e motivazione: noi non assembliamo bulloni e non ci si può giudicare
con criteri quantitativi. Viceversa, il contratto nazionale di lavoro predeterminato
dalla legge finanziaria dell’attuale governo, intende imporre la logica
degli straordinari pagati oltre le 18 ore settimanali per coprire i buchi
determinati dall’indecorosa decisione di non assumere migliaia di precari.
La logica di mercato prevale nel progetto di
controriforma. Non siamo neanche di fronte al tentativo di farci tornare
a prima del ‘63 e della media unica, cioè all’avviamento professionale.
Se le parole hanno un significato, con l’addestramento professionale (cfr.
documento Bertagna) si pensa a qualcosa di peggio: ad esempio allo “studente
in affitto”. Infatti si superano gli attuali stages per introdurre una
non meglio definita “alternanza scuola-lavoro”, che s’intende concretizzare
in lunghi periodi di impegno subordinato (e gratuito) dell’utenza dei professionali
direttamente nel mondo dell’impresa, con una scuola ridotta a far da spettatore
esterno, salvo ricomprendere nel curricolo ciò che di curricolare
ha ben poco: nient’altro che l’apprendistato. Inutile soffermarsi sul fatto
che l’ambito didattico e formativo ne risulterebbe terribilmente impoverito,
con una “scuola” a regime d’impresa, senza il “pericoloso” sapere critico,
senza approfondimenti, priva di complessità e di interconnessioni.
Ci dicono che tutto ciò sarebbe propedeutico all’inserimento occupazionale,
ma in realtà non si tratterebbe altro che di un ritorno alla pratica
ed al feticcio del monoprofessionalismo. Quanto di più negativo,
in un mondo ove le competenze necessarie all’impiego nel mercato del lavoro
mutano con una rapidità vertiginosa. Come concertato con regioni
compiacenti e dichiarato recentissimamente da Bertagna, gli istituti professionali
verrebbero ridotti a 240 ore annue di scuola “vera” (con 25 ore settimanali,
si tratterebbe di poco più di 2 mesi), per destinare il resto al
lavoro in azienda: vittime predestinate appunto gli studenti (attualmente
il 25% della popolazione scolastica), nonché i loro insegnanti,
perché negli anni, con la riforma, si ridurranno le cattedre ben
oltre le attuali, già misere, previsioni d’organico.
Sul fronte dello stato giuridico e dello status
dei docenti, il ministro-manager pensa ad un nuovo concorsone per la carriera.
Anziché adeguamento retributivo europeo, pochi spiccioli solo a
pochi, promossi con punteggi para-universitari: “aggregato” (“superdocente”
chiamato a richiesta dal dirigente); “organizzatore” (figura priva di alunni,
tramite la quale si troverebbe il modo per premiare chi trovi il modo per
non fare l’unica cosa che vale la pena di fare nella scuola, e cioè
insegnare, magari per andare a controllare come insegnano gli altri); “tutor”
(unico legame fra scuola ed impresa, per studenti deprivati del curricolo).
Seconda domanda
Il ministro dell'istruzione di chiara di voler eliminare sprechi
e inefficienze e indica anche con precisione dove intervenire. Uno di questi
è il ritorno dei tanti insegnanti, dirigenti e personale
amministrativo (18.000 unità) oggi distaccati presso altre
amministrazioni, sindacati e associazioni, a scuola a fare il lavoro per
cui sono stati assunti.
Quali sono, secondo il sindacato che lei rappresenta, gli sprchi
da eliminare? Quale posizione ha sulla questione del personale da rimandare
nelle scuole?
Risposta alla seconda domanda
Il ministro vende fumo. Siccome il “mestiere”
del “sindacalista” è a volte mestiere socialmente inviso, spara
boutades demagogiche. Ma la gente non sa che solo i sindacati concertativi
e firmatari di contratto hanno il diritto ai distacchi ed ai permessi sindacali,
così come si ignora che la legge vigente sulla rappresentanza sindacale
non può certo essere disattesa da un ministro. In realtà
la Moratti ha confermato comunque tutti i 1500 distacchi sindacali assegnati
dalle norme a CGIL, CISL, UIL, SNALS e Gilda (che si spartiscono anche
le quote percentuali che spetterebbero a noi) ed ha elargito tutti i 1000
comandi a spese dello stato previsti per le associazioni professionali
spesso legate a tali sindacati, operando in merito uno screening totalmente
discrezionale nel favorire quelle realtà vicine alla sua parte politica
a danno delle altre, favorite in precedenza. Ed anche da questi noi siamo
fuori. Le altre migliaia di unità non sono soggetti che operano
al di fuori della scuola: sono docenti inabili alla funzione che lavorano
come amministrativi, docenti riconvertiti su cattedre diverse da quelle
di provenienza o personale distaccato in grazia di norme sull’autonomia
che il ministro non ha minimamente toccato. Vi sono poi docenti ed ATA
in aspettativa non retribuita che non gravano sulle casse dello stato.
Il problema non è quello di creare capri espiatori, bensì
quello di riequilibrare la fruizione dei diritti sindacali, oggi come ieri
gestiti a senso unico. Ma di questo il ministro non si occupa. La legge
sulla rappresentanza sindacale è una vera truffa. Sono state istituite
le elezioni RSU, ma si misura la rappresentatività facendo media
fra voti e percentuale di iscritti, ed occorre il 5%. Così un sindacato
giovane deve alzare la percentuale di voti per compensare la carenza di
iscritti, mentre i vecchi, solo raggiungendo il 10% sul totale dei sindacalizzati
hanno il 5% garantito anche a voti zero. Poco importa se il 10% dei voti
validi (70% del totale della categoria) è numericamente di molto
superiore al 10% dei sindacalizzati (35% della categoria)! Le elezioni
le impongono a livello di istituto: 11.000 in Italia e bisognerebbe presentare
una lista per ogni singola scuola! Chi non ottiene la media nazionale è
fuori da tutto: sarebbe come se i partiti che non avessero il 5% da Ragusa
a Bolzano perché non hanno personale distaccato in grado di girare
per far presentare liste in tutti i seggi elettorali d’Italia, per di più
calcolato secondo una media spuria fra voti ed iscritti, perdessero persino
il diritto di essere rappresentati nei consigli regionali, provinciali
e comunali, pur essendo magari primi a livello locale! L’Unicobas a Roma
è uno dei primi sindacati, ma non ha diritto neanche a partecipare
alla contrattazione decentrata locale, né ad un permesso orario
o ad indire assemblee in orario di servizio. Non esistono elezioni a collegio
nazionale, regionale o provinciale! In Francia e Spagna, con gli iscritti
ed i voti che già abbiamo, avremmo 40 distacchi, in Italia zero.
Bella democrazia!
Terza domanda.
La professione dell'insegnante è l'unica che non prevede
una reale carriera. L'ex ministro dell'istruzione Luigi Berlinguer,
a suo tempo, tentò di smuovere le acque con il famigerato "concorsone",
ma ci rimise il posto. Non è arrivato il momento di affrontare seriamente
il problema della carriera degli insegnanti? Il suo sindacato ha una proposta
da fare?
Risposta alla terza domanda
Più che di carriera, parlerei della necessità
di un trattamento adeguato allo specifico della funzione docente. S’è
mai sentito di un ministro di Giustizia che abbia fatto valutare gli avvocati
dai magistrati (o viceversa)? Eppure per i docenti si pensa spesso a valutazioni
dei presidi-manager! S’è mai visto un ministro della Sanità
proporre valutazioni a quiz per i medici? Per quanto ci riguarda, ricordiamoci
di Berlinguer. C’è mai stato un ministro degli Interni che abbia
dato incarico a qualcuno per scrivere le regole della libertà di
stampa? Eppure la Moratti ha formato una commissione perché rediga
il codice deontologico degli insegnanti.
E’ bene che si parli di codice deontologico,
perché si riconosce di aver a che fare con professionisti, ma la
questione è che i codici deontologici li scrivono gli ordini professionali.
L’Unicobas vuole un ordine professionale dei docenti ed un contratto specifico
per la scuola fuori dal pubblico impiego. Sulla scuola attuale gravano
i dettami del DL 29/93 imposti a tutto il pubblico impiego, recepiti con
il contratto ’95. Sono stati eliminati gli automatismi d’anzianità
e con la trasformazione degli scatti biennali in gradoni sessennali e settennali,
sono riusciti a farci avere meno di quanto avremmo avuto se avessimo conservato
la situazione precedente. E’ stata imposta la riconversione d’ufficio,
spostando gli insegnanti di cattedra come se fossero travet, così
che un tecnico-pratico di un laboratorio di ceramica lo si è potuto
“riciclare” su una cattedra di geografia, mentre un insegnante di educazione
tecnica delle medie è stato “adattato” sul sostegno, con buona pace
dei precari specializzati lasciati a casa e dell’integrazione. Il “dirigente,
inesistente all’Università (solo presidi elettivi), è stato
trasformato contrattualmente in “datore di lavoro”. E’ stato eliminato
persino il ruolo, assegnandoci la qualifica di “incaricati a tempo indeterminato”.
Da tempo qualcuno chiede un contratto per i soli insegnanti della scuola,
ma i docenti universitari, che non sono stati minimamente intaccati dalla
“ristrutturazione”, non hanno avuto un contratto “separato”, sono semplicemente
rimasti con lo status precedente. Per la scuola la cosa è diversa:
privatizzati perché considerati “pubblico impiego”, resteremmo tali
non uscendo dal pubblico impiego. Questo è l’unico modo per recuperare
una posizione corretta: un contratto separato dentro il pubblico impiego
non cambierebbe la collocazione e quindi non modificherebbe nulla.