Confederazione Italiana di Base Unicobas
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CONTRO L'ACCORDO SULLE PENSIONI ED IL PROTOCOLLO SUL WELFARE

Abbiamo voluto far trascorrere qualche giorno prima di valutare l'accordo firmato il 20 luglio scorso tra governo e sindacati, ed oggi, a mente fredda, possiamo affermare che ci troviamo di fronte al peggiore accordo possibile, lontano anni luce, non solo dagli interessi dei lavoratori e pensionati, ma anche dalle stesse dichiarazioni sindacali fatte fino a qualche settimana fa.

L'impianto di questa intesa riprende la "Riforma Dini" e la esalta fino alle sue definitive e conclusive conseguenze: un vero e proprio affossamento del sistema previdenziale pubblico e non è un caso che il premier Prodi l'abbia voluto far accompagnare il 23 luglio da un "Protocollo su previdenza, lavoro e competitività", proprio nell'anniversario di quell'altra clamorosa debacle del 23/7/1993, il "Protocollo sui redditi", che avviò la politica della concertazione.

I protagonisti di questa indecente farsa sono sempre gli stessi:

i sindacati concertativi che, ormai, da anni hanno deciso di puntare tutto sulla previdenza complementare (diventando loro stessi cogestori dei fondi pensione chiusi e spingendo i lavoratori che vi aderiscono a consegnare il loro salario agli speculatori di borsa);

un governo di centrosinistra, che per l'ennesima volta accetta in maniera acritica i diktat imposti dalla Commissione europea e della Banca centrale, per presentarsi alle autorità finanziarie continentali e mondiali come campione del liberismo economico e consentire il nostro rientro dal "debito" al ritmo previsto;

la Confindustria di Montezemolo , che dopo il "cuneo fiscale", porta a casa altri risultati quali la sostanziale conferma della Legge 30 (in particolare il lavoro interinale a tempo indeterminato), la progressiva estensione e unificazione di cassa integrazione ordinaria e straordinaria, la detassazione del salario variabile aziendale sul quale le aziende pagheranno meno contributi previdenziali, incassando così la cambiale per l'appoggio dato al centro sinistra alle elezioni politiche

Ancora una volta, in poco più di un anno, l'attuale esecutivo sembra muoversi in sostanziale continuità col precedente governo e se, a prima vista, sembra aver cancellato il famoso "scalone", trasformandolo in "scalino" (dal 1° gennaio 2008 i lavoratori dipendenti potranno andare in pensione con 58 anni di età e 35 di contributi), in realtà eguaglia e, forse, supera in negativo la stessa normativa Maroni: infatti, dal 1° luglio 2009 si andrà in quiescenza una volta raggiunta «quota 95», con 59 anni di età, dal 1° gennaio 2011 l'età pensionabile raggiungerà i 60 anni, con «quota 96», mentre dal 1° gennaio 2013 si potrà andare in pensione a «quota 97», con 61 anni di età.

Lavoratori dipendenti
DATA ANNI QUOTA
1 gennaio 2008 58 -
1 luglio 2009 59 95
1 gennaio 2011 60 96
1 gennaio 2013 61 97

Dagli aumenti dell'età di pensionamento sarebbero esclusi i lavoratori con attività usuranti, ma rimane ancora imprecisata la loro individuazione, col rischio che questo problema depotenzi l'applicazione dell'esclusione, come già è avvenuto in passato.

L'insieme del provvedimento dovrebbe costare, rispetto all'applicazione dello scalone, 10 miliardi di euro nei prossimi dieci anni, ma è previsto che siano tutti a carico delle stesso sistema previdenziale, ovvero dei lavoratori, sia dipendenti che "subordinati", per i quali - peraltro - l'ultima legge finanziaria ha già aumentato le aliquote contributive.

Quello che può apparire come un ammorbidimento dello scalone, in realtà, serve a nascondere la cosa più grave stabilita con questo accordo, col tacito consenso delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative: l'introduzione dell'automatismo nella definizione dei coefficienti di rendimento.

Da oggi infatti, il coefficiente non sarà più verificato e calcolato sulla base del rapporto tra le entrate (versamenti) ed uscite (pagamento delle pensioni) che, nonostante quanto asseriscono i fautori della riforma, risulta ad oggi ancora pienamente in attivo, ma sulla base di parametri esterni, come l'andamento demografico, l'andamento del PIL, e gli obiettivi di bilancio dello Stato.

Ogni tre anni, il Ministro del Tesoro (oggi di centrosinistra, domani, forse, esponente della finanza creativa neoliberista…), verificherà l'andamento dei parametri citati, soprattutto calcolerà il fabbisogno statale per finanziare i propri programmi di spesa per l'assistenza e, quindi, deciderà di quanto il coefficiente di calcolo delle pensioni dovrà essere abbassato per liberare le risorse che serviranno e tutto ciò automaticamente, senza alcun obbligo di discussione con le parti sociali, tramite un decreto ad opera del Ministero del lavoro e di quello dell'economia (vedi intesa del 20/7 pag.6).

Per concludere il desolante quadro uscito da questo "accordo capestro", basta solo ricordare che nella tabella A, citata ma non riportata nell'accordo firmato il 20 luglio e comparsa poi nel protocollo firmato il 23 luglio, in realtà, égià riportata la riduzione dei coefficienti di rendimento a partire dal 2010 e quindi il taglio delle pensioni che cresce dal 6,4 all'8,4%.

La cosa drammatica è che tutto ciò è stato stabilito col fondo previdenziale in attivo…

La finanziaria prima, ed ora l'accordo sulle pensioni, hanno visto per l'ennesima volta le lavoratrici ed i lavoratori ridotti al rango di spettatori, completamente espropriati del loro ruolo attivo dalle burocrazie espresse dai sindacati concertativi. E' giunta l'ora che lavoratori e pensionati prendano atto della sostanziale inutilità di queste organizzazioni per la tutela dei loro diritti. Solo una forte autonomia del movimento dei lavoratori nella pratica e negli obiettivi potrà far arretrare il progetto neo-liberista nei luoghi di lavoro e nella società.

L'UNIcobas ritiene indispensabile dire NO a questo accordo, così come ritiene indispensabile impegnarsi fin d'ora per preparare una forte mobilitazione unitaria e nazionale da costruire alla ripresa del lavoro, per contrastare le politiche antisociali del governo e favorire una più equa redistribuzione del reddito.