La perdita di fiducia nelle istituzioni data dagli anni '70, da quando l'Italia diventò il Paese che spende di meno in Europa per istruzione, università e ricerca. Gli stipendi degli insegnanti sono i più bassi del continente e le strutture le più fatiscenti, tanto che siamo pressoché gli unici a non aver ancora provveduto neppure alla messa a norma relativamente alla L. 626 su igiene e sicurezza, con ulteriori vergognose proroghe alla fine dello scorso anno solare. Ad inasprire la condizione sono intervenute continue contro-riforme, varate da commissioni complete di cantanti ed attori ma ben lungi dal mondo della scuola. Così la scuola elementare, al primo posto nel mondo secondo i dati OCSE, fu fatta scendere al comunque ancora onorevole quinto posto con i moduli verticali e quattro su tre della legge 148 del '90. Ma l'accanimento tipico di un Paese che colpisce ciò che funziona e perpetua le disfunzioni, si ripropose con Berlinguer, il cui "riordino dei cicli" avrebbe liquidato decine di migliaia di docenti elementari inserendo gli insegnanti di scuola media a partire dalle future terze, avrebbe creato le cosiddette "onde anomale" ed eliminato complessivamente una cattedra ogni otto a causa dell'unificazione dei due segmenti in un settennio. Infine, con la legge Moratti, si è davvero toccato il fondo. Se non riusciremo a farla abrogare, il ritorno al maestro tuttologo "prevalente" con lo svilimento della pluralità docente, l'abbattimento del tempo scuola e la volontà di trasformare il tempo pieno in una riedizione del dopo-scuola comunale con ben dieci ore di mensa e dopo-mensa, produrranno una forte riduzione della qualità e manderanno in esubero decine di migliaia di insegnanti ed ATA. E che dire dell'ingresso anticipato, che nella scuola dell'infanzia trasforma le insegnanti in baby-sitter? Basti pensare a due cose. In primis, lo scarso livello di autonomia degli alunni rende impossibile il raggiungimento degli obiettivi dei nuovi orientamenti, tanto che in tutto il globo dai due anni e mezzo ai tre i bambini non frequentano la scuola dell'infanzia. Secondariamente, con riguardo ai carichi di lavoro ed alla dignità professionale, gli asili nido conservano un rapporto sei ad uno, mentre nel primo ordine di scuola un insegnante si trova anche con venticinque o ventotto alunni.

Per quanto riguarda certe sigle sindacali, la categoria non crede più in loro perché si è trovata scoperta e non le hanno fornito aiuto, fiancheggiando apertamente i propri partiti di appartenenza e le relative controriforme. Ciò è successo sia con Berlinguer che, mutatis mutandis, oggi con la Moratti. Infatti, a parte i giochi e le opposizioni "di facciata", tutte le sigle cosiddette "maggiormente rappresentative assai" contrattano sulle mance aggiuntive che la Moratti vorrebbe dare al tutor. Accettare tale contrattazione significa dire di sì all'architrave principale della controriforma, ma tali sindacati hanno già dato ampia prova in passato di essere favorevoli all'introduzione di figure gerarchiche e nella sostanza sono "geneticamente" disponibili dai tempi dell'abortito "concorsone". Si tratta di sigle che non hanno mai chiesto per gli insegnanti, al contrario del resto d'Europa, l'ingresso gratuito nei musei.

E' la politica generale sulla scuola ad essere entrata in crisi in Italia, e ciò ha attinenza anche con le altre questioni aperte. La formazione di base dei docenti è determinante. Noi restiamo convinti che la selezione debba avvenire ab origine anziché in itinere e qui scontiamo tradizionalmente idee improprie.

La prima è che si debbano far fare esami postumi o, peggio, che si debba venire valutati da dirigenti, genitori ed alunni, mentre nessuno si sognerebbe mai di imporre ai medici che scrivano anamnesi e terapie sotto la dettatura dei "pazienti", che gli avvocati abbiano una carriera subordinata a note di merito redatte dai magistrati, né che il codice deontologico dei giornalisti venga scritto dal ministro dell'interno. Il ruolo di dirigente configge con la comunità educante, che richiede maggiore cooperazione. La scuola non è un'azienda. I presidi di facoltà, che conteranno ben di più dei vecchi capi di istituto, nelle università sono elettivi.

Il secondo problema è che non basta avere una o più lauree per dare garanzie nell'insegnamento ma occorre che gli studi siano attinenti anche a metodologia e didattica. Per questo, in apparenza paradossalmente, l'elementare è la migliore, ma la peggio pagata e con la scuola dell'infanzia la più oberata di ore frontali. Eppure è ridicolo pensare che chi ha alunni più piccoli debba percepire di meno come se avesse meno responsabilità. Alle elementari e materne la preparazione è avvenuta sul campo, altrove le lauree non hanno garantito nulla. Occorre certamente una formazione universitaria completa, ma effettivamente mirata all'insegnamento, anche con competenze di psicologia dell'età evolutiva, nonché il ruolo unico docente a parità di orario e retribuzione. Il rapporto empatico non si apprende sui libri: occorre un tirocinio pratico serio e seriamente tutorato di almeno un anno, direttamente inserito in un corso di laurea comprendente almeno un biennio ad indirizzo didattico. Infine che si assumano i migliori e che questi vengano abilitati direttamente in sede universitaria, ponendo fine alle clientele ed alle roulettes russe di concorsi ove spesso viene promosso quello che ha copiato e respinto chi ha scritto il compito. Nella scuola non deve finire il professionista fallito ma chi effettivamente vuole insegnare, al quale però va garantita una retribuzione adeguata alla centralità sociale ed ai rischi che lo investono.

A proposito di reclutamento, vanno ricordati i precari, le prime vittime sacrificali di un cambiamento epocale che prevede il taglio di almeno 140.000 cattedre, 70.000 delle quali di elementari e medie: altro che 120.000 nuove assunzioni! Né si può permettere che per uno straccio di stipendio venga chiesto loro di rinunciare alla ricostruzione di carriera o di posticiparla, tantomeno di venire assunti con contratti di formazione-lavoro.

La questione della carriera va per prima cosa inquadrata nel riconoscimento della specificità professionale della funzione docente. Non può esistere carriera se l'inquadramento è sbagliato. I docenti non sono impiegati e vanno portati fuori dalla gabbia del pubblico impiego. Fuori dalle norme imposte alla contrattazione con il decreto legislativo 29/93 che ne ha addirittura privatizzato il rapporto di lavoro e che definisce il dirigente come "datore di lavoro". Altrimenti è ipocrita stupirsi che si tenda ad arrivare alla chiamata diretta e discrezionale fuori dalle graduatorie pubbliche od a tornare alle note di merito introdotte dal fascismo e cancellate dai decreti delegati del '74. In gioco è la libertà d'insegnamento. Le norme sul pubblico impiego hanno imposto l'eliminazione del ruolo, con un vulnus evidente per una categoria di professionisti. S'impone l'eliminazione degli automatismi d'anzianità, già ridotti da biennali a "gradoni" sessennali e settennali. Ma ad insegnare s'impara anche insegnando, tanto che ad esempio in Svizzera esistono scatti annuali. Si è eliminata per legge la possibilità di avere aumenti in paga base pensionabili, eccezion fatta per la percentuale di "adeguamento" all'inflazione dipendente da dati ISTAT che potremmo giocare al lotto. Per questo si è potuta varare una finanziaria con stanziamenti che non consentono neanche il 4 % di "aumento" a fronte di una paurosa perdita di potere d'acquisto dopo l'introduzione dell'euro. Il resto, dal contratto del '95 che ha recepito i diktat del Dlvo 29/93, è solo salario accessorio: non pensionabili i 6 milioni annui di vecchie lire del famoso concorsone, così come le retribuzioni delle funzioni obiettivo e delle funzioni aggiuntive. Con questo super ego legislativo non solo non si potrà mai parlare di stipendio europeo, ma neanche potremo mai avvicinarci alla media retributiva della UE, dalla quale siamo destinati ad allontanarci di contratto in contratto. L'idea che gli insegnanti siano impiegati part-time è invalsa nel Paese anche a causa del fatto che l'orario sommerso non viene mai portato alla luce. Da ciò la bizzarria che se si vuole qualcosa di più bisogna lavorare di più. Solo che con più ore o più alunni si lavora fatalmente peggio e tutto ciò è incompatibile con la atipicità della funzione docente. Per tali motivi enunciamo da sempre un'elementare verità: o si esce dal pubblico impiego e dalle imposizioni contrattuali di tale settore, o la situazione potrà solo peggiorare! Occorre creare un comparto ex novo per scuola ed università, ed uscire dalla schizofrenia che vede l'università decontrattualizzata e fuori dal pubblico impiego e la scuola con un contratto che non le si adatta.

Chi parla di stipendio europeo e non prevede ciò fa solo confusione, poiché non raggiungeremo mai uno stipendio europeo fino a che non potremo avere aumenti pensionabili in paga base. Questo vale non solo per i Confederali o per i residui del vecchio movimento Cobas con pari visione impiegatizio-operista, nonché per lo SNALS che ha contribuito a guidare l'operazione di omologazione, ma anche per la Gilda che chiede un contratto separato fra docenti ed ATA sempre dentro il pubblico impiego. Sarebbe ingiusto ed offensivo per gli ATA, perché tutte le mansioni nella scuola sono diverse dal pubblico impiego. E' evidente a tutti che, ad esempio, i collaboratori scolastici hanno compiti di vigilanza, al contrario degli uscieri dei ministeri o degli enti locali. Ma la cosa non servirebbe neanche ai docenti: la questione non è se il contratto è unitario o dei separati in casa, ma dove si colloca ed a quali norme deve attenersi. E questa del contratto "separato" è una delle "novità" contenute nella normativa sulla revisione dello stato giuridico che vuole varare l'attuale governo, aggiungendo valutazioni biennali da parte di commissioni presiedute dal dirigente e comprendenti anche due genitori nella scuola elementare o due studenti in quella superiore, oltre a due docenti "esperti" divenuti tali grazie alle valutazioni del dirigente medesimo. Per dividere gli insegnanti in tre fasce stipendiali di "merito" decise come per dei travet. Questo per ribadire che occorre attenzione nel parlare di carriera: una "carriera" del genere sinceramente è meglio evitarla.

Stefano d'Errico

(segretario nazionale de l'AltrascuolA Unicobas)