NOI E IL REFERENDUM SULL'ART. 18 (L.300/70)

La campagna del governo contro l'articolo 18 si inserisce in una generale politica di attacco alle condizioni e ai diritti dei lavoratori, caratterizzata dalla volontà di dissoluzione dei meccanismi di solidarietà: dall'accentuazione delle discriminazioni tra cittadini italiani e migranti, tra lavoratori stabili e precari, alla discriminazione sessuale che ha determinato gran parte delle scelte in materia di politica sociale.

I lavoratori hanno riconosciuto l'importanza dell'obiettivo della difesa dell'art. 18, come momento aggregante di generale e solidale difesa dei diritti e delle condizioni di lavoro. La questione infatti non riguarda solo i lavoratori privati, ma settori ben più ampi, dal momento che la privatizzazione del rapporto di lavoro ha investito anche gran parte della Pubblica amministrazione, in cui sono stati già introdotti gli istituti della riconversione selvaggia, del licenziamento anche per esubero e della cassa integrazione. Come considerare, ad esempio, le disposizioni della Legge Finanziaria 2003 per la scuola, a proposito dei lavoratori non idonei per motivi di salute, per cui viene prevista la risoluzione del rapporto di lavoro? Non si tratta forse, anche in questo caso, attraverso una vergognosa discriminazione tra lavoratori "sani" e "malati", di licenziamento senza giusta causa, di recessione dello statuto dei lavoratori?

La difesa dell'art. 18 non è una parola d'ordine stereotipa per esprimere una solidarietà formale ad una limitata categoria di lavoratori, ma deve essere una lotta concreta e generale in difesa del posto di lavoro, contro la precarizzazione, per l'affermazione e l'estensione dei diritti, contro qualsiasi discriminazione tra lavoratori.

E' su queste basi che si è sviluppata la lotta in difesa dell'articolo 18 da un anno a questa parte. E' su questi contenuti che migliaia di lavoratori si sono mobilitati ovunque, che hanno organizzato comitati, scioperi, manifestazioni, che hanno ridato vita alle piazze, sulle quali la repressione e l'assassinio di Genova gettavano ancora ombra.

Il sindacalismo di base ha avuto il merito di lanciare concretamente la campagna sull'articolo 18 con lo sciopero generale del 15 febbraio 2001.

La piattaforma del 15 febbraio, nell'ambito di una generale mobilitazione contro la politica del governo (appena 10 giorni prima era stato firmato, anche con il consenso CGIL, il vergognoso accordo sul pubblico impiego) rivendicava non solo la tutela dell'art. 18, ma anche la sua estensione alle aziende con meno di 15 dipendenti e alle cooperative. E' stato quello sciopero generale che ha sollecitato in modo potente le mobilitazioni successive e gli scioperi di aprile e di ottobre indetti da CGIL e Sindacati di base.

Queste mobilitazioni, nonostante le molte difficoltà e i soliti tentativi di strumentalizzazione (si veda la criminalizzazione del dissenso sindacale dopo l'omicidio di Biagi), sono state tanto diffuse e potenti da fermare la manovra e indurre il Governo a congelare la revisione dell'art. 18.

Il referendum promosso da Rifondazione Comunista per l'estensione dell'articolo 18 alle aziende con meno di 15 dipendenti pone un obiettivo perfettamente condivisibile e correttamente in linea con le rivendicazioni portate avanti dai sindacati di base sulla materia. Tuttavia lo strumento referendario si colloca su un terreno pericolosamente arretrato rispetto alle effettive potenzialità che un anno di lotta e di campagne hanno evidenziato ed al tempo stesso rischia di essere velleitario sul piano istituzionale. I lavoratori hanno già dimostrato di essere in grado di respingere la manovra con le mobilitazioni e gli scioperi. E' a questa potenzialità che bisogna nuovamente fare appello per riprendere le lotte per l'estensione dei diritti.

La questione dell'articolo 18 non è e non deve essere una campagna d'opinione, bensì una grande vertenza di piazza, che solo i lavoratori possono condurre, con i rapporti di forza che riusciranno ad imporre.

Non si tratta certamente di dare valutazioni ideologiche o pregiudiziali sullo strumento referendario in quanto tale. Va rilevato comunque, come dato di fatto, che i referendum in materia di lavoro non hanno finora portato risultati positivi per i lavoratori. Si pensi al referendum sulla scala mobile miseramente abrogata per volere delle urne, al referendum sulla abolizione della trattenuta sindacale ed a quello sulla questione della "maggiore rappresentatività", utilizzato contro il sindacalismo di base in funzione della revisione del calcolo di rappresentatività, allo steso referendum sull'abrogazione dell'art. 18, a suo tempo proposto dai radicali: il fatto che fosse stato bocciato non ha impedito al Governo di riproporre un'aggressione serrata ai diritti e alle tutele sindacali a dimostrazione che evidentemente un esito referendario anche favorevole non costituisce di per sé garanzia sufficiente contro le politiche governative che solo i lavoratori possono contrastare con la lotta.

Né d'altra parte ci pare che esistano condizioni politiche generali favorevoli ad un esito positivo del referendum. Sicuramente poco incoraggianti sono le varie fratture a sinistra e soprattutto la posizione attuale della CGIL, che, gettata la maschera solidaristica, distingue tra lavoratori con più diritti e lavoratori con meno diritti (del resto non è cosi anche per il diritto di assemblea, art. 20, Statuto dei Lavoratoi: qualcuno ce l'ha e qualcuno non lo deve avere......). Peraltro non si può dimenticare che il Governo di "Centro-Sinistra", con l'appoggio della CGIL, aveva già introdotto forti limitazioni ai diritti dei lavoratori, creando istituti senza garanzie come i contratti di formazione lavoro, i contratti d'area, il lavoro in affitto, etc. Né si può tacere che sullo stesso art. 18 erano in cantiere modifiche simili alle attuali al tempo di D'Alema, appoggiate all'epoca, senza colpo ferire, anche dalla CGIL di Cofferati, al tempo sindacato di governo come oggi CISL e UIL.

Va considerato inoltre che il referendum chiama ad esprimersi su un articolo dello statuto dei lavoratori l'intero corpo sociale, comprendente categorie assai distanti o addirittura ostili agli interessi dei lavoratori dipendenti: non solo imprenditori, commercianti, militari, ceto clericale, etc., ma anche tutti quei lavoratori estranei alle forme classiche di organizzazione del lavoro e privi di interesse verso lo Statuto (precari, interinali, Co.Co.Co. ........). Si tratta di una consistente massa di lavoratori alla espansione della quale il Governo sta alacremente lavorando mediante la legge delega in materia di occupazione e mercato del lavoro.

Abolizione del collocamento pubblico, estensione dei contratti precari e del lavoro interinale e a chiamata, introduzione della certificazione ispettiva dei contratti come ammortizzatore di vertenze aziendali. Sono queste le misure gravissime e discriminatorie su cui il governo procede in questi giorni recuperando in modo formidabile la frenata imposta dai lavoratori sull'articolo 18.

A questo durissimo attacco è necessario rispondere immediatamente e lucidamente, con una ripresa forte della mobilitazione all'interno delle strutture sindacali di base in cui i lavoratori si organizzano.

Auspichiamo quindi un esito positivo della consultazione, ma il referendum non deve costituire una vana illusione più utile a misere fortune elettoralistiche di piccolo cabotaggio (percentuale), perché altrimenti, nel caso di una sconfitta (destinata fatalmente a ridare fiato alla controparte, come se le modifiche di Berlusconi venissero validate "di converso"), rappresenterebbe un ostacolo ed una battuta d'arresto per quella che, aldilà di ogni appuntamento alle urne, è l'unica arma efficace nelle mani dei lavoratori: la mobilitazione quotidiana sul posto di lavoro, il radicamento dell'organizzazione sindacale di base, autentico strumento di lotta, la pratica della solidarietà per l'affermazione e la reale estensione dei diritti.

L'Esecutivo Nazionale dell'Unicobas