Cataldo Marino

IL DISAGIO DEGLI INSEGNANTI

La crisi della scuola di fronte alle riforme

Quaderni di ricerca e critica sociale

Copyright 2000 Cataldo Marino

Fotocopie e rilegatura effettuate in novembre 2000 da COPYCENTER snc – Viale della Repubblica, 62

Tel. 0983 290430 - Rossano (cs)

In copertina

Riproduzione di "Acquerello" di Luca Marino

" Tutti, o fratello Gallione, vogliono vivere felici, ma quando poi si tratta di riconoscere cos'è che rende felice la vita, ecco che ti vanno a tentoni.

A tal punto è così poco facile nella vita raggiungere la felicità che uno, quanto più affannosamente la cerca, tanto più se ne allontana, per poco che esca di strada. Che se poi si va in senso opposto, allora più si corre veloci e più aumenta la distanza ".

Lucio Anneo Seneca "De vita beata" I, 1

" E come potrebbe l'uomo savio assumere la sovranità, dimora di illusioni, in cui si trovano paura, presunzione, fatica e violenza alla Legge per colpe commesse contro il prossimo ?

Proprio come un dorato palazzo in fiamme, come una pietanza squisita mescolata a veleno, come uno stagno di ninfee infestato da coccodrilli, il regno è a un tempo dilettoso e fonte di sventura.

Esso quindi non è né piacere né Legge : così in antico i sovrani che ne provavano avversione, col progredire degli anni e le inevitabili infelicità lasciavano il trono e si ritiravano nella foresta.

E' meglio infatti mangiare erbe nella selva tenendo stretta la suprema felicità come un gioiello, che vivere tra i vizi in cui si imbatte facilmente un re, simili a invisibili serpenti neri ".

Asvaghosa "Le gesta del Budda"

Buddhacarita Canto I X versi 40-43
 
 
 

INDICE

Premessa

Questionario "Il disagio degli insegnanti"

Come nasce il questionario

Caratteri e preparazione

Analisi generale

L'autonomia

Il piano dell'offerta formativa

I seimilionisti

Le funzioni-obiettivo

Il preside-manager

L'aumento del lavoro

Le pagelline

Eventuale giudizio degli alunni sugli insegnanti

La scelta del collaboratore-vicario

Questionario sugli aumenti retributivi

La retribuzione

Come distribuire le somme stanziate

Chi premiare ?

Sappiamo giudicarci fra noi ?

Le riforme scolastiche e la sinistra

Altri scritti sulle riforme

Contratto '99: il linguaggio sindacal-pedagogico

Il pof fa flop

Una lezione da cinquanta minuti

Autonomia, democrazia, libertà

Manager per un anno

Riforme e business

Gli organi collegiali

Riflessioni pedagogiche

Né metro né bilancia

Una tipologia della valutazione

I tempi dell'apprendimento
 
 

PREMESSA

Gli scritti che vengono qui presentati non hanno purtroppo un carattere rigorosamente sistematico, perché sorti non per una speculazione teorica, ma per rispondere con una certa celerità ad esigenze concrete. Si tratta di considerazioni , rivisitate più volte per dar loro una forma più coerente e gradevole, ma scritte con l'impeto della passione per i problemi trattati e con sdegno e risentimento per come una politica dissennata rischi di rovinare i rapporti umani dell'ambiente in cui lavoro da trent'anni, senza peraltro tradursi in alcuna positiva ricaduta sul funzionamento della scuola.

Ovviamente una certa disorganicità talvolta può comportare delle ripetizioni. Ad esempio l'argomento dell'autonomia scolastica viene trattato una prima volta nell'Analisi del questionario sul disagio degli insegnanti, una seconda volta nello scritto sui rapporti tra Riforme scolastiche e forze politiche di sinistra ed una terza volta nello scritto intitolato Autonomia, democrazia e libertà. Perché non raccogliere tutte le idee sullo stesso argomento in un unico saggio ? Innanzitutto perché i tre momenti rispecchiano stati d'animo diversi ed unificarli avrebbe comportato nel complesso un impoverimento della visione del problema. In secondo luogo perché il lavoro di sistematizzazione comporta tempi piuttosto lunghi e questi scritti invece sono nati per arrivare ai colleghi, ed eventualmente a qualche politico scrupoloso e lungimirante, prima che il Governo completi il pasticcio dell'autonomia.

Cronologicamente il primo scritto è quello sulle Riforme scolastiche e la sinistra. Esso risale al mese di febbraio, quando il clima era arroventato dallo sciopero, e in origine si trattava di una lettera indirizzata a Massimo D'Alema; lettera che è rimasta chiusa nel cassetto perché ho pensato che, se inviata personalmente al destinatario, probabilmente non sarebbe giunta nelle sue mani: il leader del maggior partito della maggioranza e Presidente del Consiglio dei ministri in carica, ho pensato, sarà sicuramente difeso dalle possibili seccature quotidiane da parte dei singoli cittadini da un apparato di burocrati pronti a cestinare con disgusto le lettere a favore e con disprezzo le lettere contro.

Pessimismo o realismo ? Realismo se penso che per circa quindici giorni ho ripetutamente telefonato alla segreteria del responsabile dei ds per la scuola, per dire a viva voce quanto pensavo della loro politica scolastica e non sono mai riuscito a parlarci. A nulla sono valse le mie referenze politiche di militanza e di simpatia ultratrentennale, una cortina impenetrabile divide ancora purtroppo i governanti dai governati. Allora ho rinunciato a parlare con lui ….ed ho rinunciato anche a spedire la lettera.

L'idea di un pamphlet1 utile alla causa della democrazia nella scuola è venuta successivamente, con l'analisi del questionario somministrato a fine aprile, con lo scopo di verificare in quale misura le tesi contenute nella originaria lettera a D'Alema trovavano rispondenza fra i colleghi di alcune scuole del luogo. I risultati superarono ogni aspettativa; nessuna delle riforme berlingueriane raggiungeva il 50% dei consensi, qualcuna di esse addirittura si attestava sul 12% (la meritocrazia e le discriminazioni stipendiali) o sul 9% (il preside manager).

Sono poi seguiti degli scritti, che ampliavano alcuni temi già analizzati per sommi capi nella lettera e nel questionario o relativi a problemi dibattuti con i colleghi, ed infine tre brevi scritti contenenti alcune riflessioni di natura pedagogica suggeritemi dalla mia ormai lunga esperienza lavorativa nella scuola.

Il primo di questi tende a dimostrare che lo Stato obbliga gli insegnanti ad usare ogni giorno un registro per i voti, di cui gli alunni hanno in genere timore e che non apporta nulla di positivo all'azione didattica.

Il secondo dà per scontato che per ora purtroppo non possiamo esimerci dall'obbligo burocratico della tenuta del registro, ma invita ad usarlo almeno con onestà e competenza, non accettando raccomandazioni e facendo attenzione nella valutazione degli allievi a non essere né troppo severi né troppo buonisti, per usare un termine ormai entrato nel linguaggio comune.

Il terzo tratta un argomento qui solo accennato e che, per la sua importanza, mi ripropongo di analizzare nell'ampiezza e profondità che merita, quando, passato il ciclone delle riforme, ci sarà il tempo per riflettere su cose più serie: in che modo i ritmi di svolgimento del programma scolastico incidono sulla psiche dell'alunno e quindi sulla sua voglia e capacità di apprendere?

Per alcuni argomenti ho sentito la necessità di avventurarmi anche sull'impervio terreno della legislazione scolastica, dove una giungla di circa cinquemila norme rende arduo il cammino ai più se non a tutti. Era sempre stato un mio vanto quello di non essere mai voluto andare a curiosare fra le "gride" ministeriali per trarne, come molti, il massimo vantaggio economico o per poter fare l'assenteista. Quando però sono piovuti dall'alto l'autonomia dirigistica e quel concorso, teso a degradare gli insegnanti che non sanno parlare col bla bla del didattichese e porre sul piedistallo quelli che sanno tutto su come si fa carriera nella scuola, è sorta subitanea una voglia rabbiosa di castigare, sul terreno della legalità oltre che della politica, tutti coloro che approfittando delle nuove posizioni di forza cercavano di curvare le norme ai loro interessi. Qualcuno di idee contrarie alle mie mi dice che a volte mi sbaglio e ciò è naturalmente possibile, ma non di rado trovo in altre fonti interpretative (giornali specializzati, comunicati sindacali, note ministeriali esplicative) puntuali conferme delle conclusioni cui giungo; la cosa si è verificata per argomenti come l'autonomia contabile, che, non appena approvato l'apposito regolamento, dovrebbe consentire alle singole scuole di utilizzare i fondi a disposizione senza vincoli di destinazione, e come il recupero dei dieci minuti delle lezioni brevi, per il quale c'è una inequivocabile e tassativa interpretazione "autentica".

Le riflessioni che vengono qui esposte nascono in un determinato ambiente di lavoro, ma non si esauriscono in esso e perciò le critiche ad alcune figure dei nuovi organigrammi non devono essere considerate come critiche a persone particolari, verso cui in genere nutro invece rispetto e per le quali mi auguro una presa di coscienza della strumentalizzazione che accompagna certi effimeri ed aleatori privilegi. L'indignazione per la "cattiva novella" berlingueriana si è nutrita, in realtà, oltre che delle concrete esperienze personali, anche di informazioni provenienti dai colleghi della propria come di altre scuole (il sindacalista è un collettore del malcontento), dagli amici dei sindacati di base, dalla lettura delle cronache e degli approfondimenti dei maggiori quotidiani italiani nonché da una attenta rilettura di alcuni dei nuovi testi normativi, che, come si cercherà di dimostrare, potrebbero segnare la triste transizione verso una scuola ritagliata sullo stampo di un modello organizzativo medioevale.

Ringrazio il prof. Pasquale Mentana, il prof. Gaetano Romano e il prof. Antonio Mazzieri per i loro preziosi consigli, gli amici del sindacato Unicobas scuola, che da Roma e da Cosenza mi hanno rafforzato nel proposito di oppormi nel mio piccolo al disegno reazionario che guida le riforme scolastiche di questi anni, e infine tutti coloro i quali mi hanno incoraggiato in questa mia iniziativa.

Cataldo Marino

QUESTIONARIO "IL DISAGIO DEGLI INSEGNANTI"

EFFETTI DELLE RIFORME
Effetti

Riforme

Posi-

 tivi 

Nega- 

tivi

Nessun 

effetto

Nessuna 

Risposta

Autonomia 30 % 47 % 14 % 9 %
P.O.F. 44 % 37 % 11 % 8 % 
Incentivazione al 20% degli

insegnanti

12 % 75 % 8 % 5 % 
Funzioni- 

obiettivo

26 % 52 % I4 % 8 %
Figura del 

Preside

manager

9 %

 

62 %  20 % 9 %

Considerazioni sull'incarico per le funzioni-obiettivo:

1) E' un supporto serio al buon funzionamento della scuola ……………………………………. 16 %

2) E' un supporto per gli insegnanti nello svolgimento dell'attività didattica …………. 4 %

3) E' un'attività positiva ma con scelte non sempre appropriate …………………………………….. 34 %

4) E' un incarico ambìto per trarne potere e vantaggi economici ………………………….. 40 %

  1. Aumentato………………………………………93 %
  2. Diminuito……………………………………… 0 %
  3. Rimasto uguale……………………………… 7 %

  4.  

     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     

    L'aumento di lavoro:
     
     

  1. Durante il corso degli studi ……………...31 %
  1. Al termine del corso degli studi ……… 33 %
  2. Quando l'alunno si è inserito nel mondo del lavoro …………………….. ………………… 33 %

  3.  

     
     
     
     
     
     
     
     
     
     
     

    > Nessuna risposta …………………………….3 %

    Dal prossimo anno il collaboratore-vicario non sarà più eletto dal Collegio dei docenti, ma verrà scelto dal Preside. Ciò provocherà:
     
     

LE RIFORME SCOLASTICHE E LA SINISTRA1

l l7 febbraio del 2000 gli insegnanti si sono ribellati contro l'idea di un concorso che doveva premiare il 20 % della categoria, contro l'idea che per contratto un insegnante su cinque fosse bravo e gli altri quattro fossero inferiori in quanto a preparazione e capacità didattiche.

La protesta ha fatto recedere il ministro dall'idea di ricorrere a quiz e prove pratiche, ma non da quella di trovare comunque un modo per selezionare i docenti.

Il fatto è che tutta la nuova filosofia scolastica berlingueriana poggia su principi aziendalistici e spesso autoritari, senza comprendere che questi principi cozzano contro la sensibilità della maggioranza della classe docente.

Vediamo alcuni dei provvedimenti che sono stati presi in tal senso, in circa tre anni, in questa materia.
 
 

Autonomia degli istituti scolastici.2

E' un principio organizzativo che tende a fare delle scuole come delle piccole aziende, con l'idea di aumentarne la "produttività" e creare "concorrenza" fra di loro. Le scuole non sono però aziende di produzione, perché, se i costi sono quantificabili, i ricavi invece no. La produttività di un insegnante non è rilevabile oggettivamente né da una commissione esterna (per l'inadeguatezza di ogni possibile prova), né da una commissione interna (per il pericolo del voto di scambio), né dal dirigente scolastico (per i possibili favoritismi verso il servilismo rampante), né dagli alunni (perché chi è tenuto a giudicare non può essere condizionato, di norma, dal soggetto su cui il suo giudizio cade: sarebbe una rischiosa inversione di ruoli fra giudicante e giudicato).

E' inoltre ridicolo e degradante instaurare la concorrenza tra le scuole, con la corsa all' accaparramento degli alunni e una propaganda che tratta la cultura alla stregua di un prodotto commerciale.

L'autonomia scolastica ricorda la politica fatta dalle grandi imprese negli anni Ottanta: frantumarsi in piccole unità produttive per poter meglio controllare i singoli lavoratori e le loro rivendicazioni collettive. Fu l' inizio del riflusso sociale e culturale oltre che economico.

Il concorsaccio

Di questo si è già parlato tanto, perciò analizziamone, sotto un certo profilo, solo una parte: i famigerati quiz. Le domande riguardavano per il 30% le nuove metodologie: chi non conosceva i confusi principi didattici degli anni Settanta (trasversalità, strategie educative, flessibilità e via di seguito) era, secondo il ministro, da penalizzare economicamente e di conseguenza professionalmente.

Il ministro dimentica che l'articolo 33 della nostra Costituzione riconosce la libertà di insegnamento a garanzia del pluralismo culturale e della democrazia e dimentica anche che un insegnante può, oggi come ieri, raggiungere ottimi risultati educativi anche con metodi diversi da quelli che il ministro ha cercato e cerca pervicacemente di imporre. Il monopolio della cultura da parte dello Stato ricorda il regime fascista e una moderna democrazia non può arrivare ad accogliere queste componenti ideologiche.

I presidi-manager

Oggi nella scuola è in atto da parte dei presidi una energica ed efficace azione di svuotamento dei poteri degli organi collegiali. La maggior parte di questi dirigenti diventa sempre più arrogante nella libera interpretazione delle poco trasparenti norme che giungono dal ministero. Spesso essi, facendo leva sulle loro nuove attribuzioni e su un diffuso timore riverenziale, riescono a far approvare dagli organi collegiali tutto ciò che ritengono opportuno. Tendono inoltre, per rinsaldare i rapporti con tutti coloro che collaborano nel processo di gerarchizzazione della scuola, a favorire, nel rispetto delle norme, l'utilizzo delle consistenti risorse che troppo generosamente Ministero, Regioni e persino gli ingenui e fiduciosi responsabili dell' U.E. dispensano per attività spesso inutili o inverosimili.

Le funzioni-obiettivo

In una struttura autoritaria, accanto ai capi ci devono sempre essere i capetti. Non fanno niente? Fanno cose sbagliate? Non importa. Basta che si instauri una gerarchia: presidi, collaboratori, responsabili delle funzioni-obiettivo, seimilionisti e infine un buon 75 % di marmaglia. L'organigramma, salvo forse certi diritti tipici dell' epoca, ricorda molto l'ordinamento feudale.

Ecco i risultati del governo degli illuminati, ecco il modo giusto per valorizzare le risorse culturali del Paese !

Il collaboratore-vicario

Dal prossimo anno potrebbe non essere più scelto nella rosa di nomi indicata dal Collegio dei docenti.

Finora, votando per un collega, i docenti spesso contrapponevano al capo una personalità forte, per bilanciarne le tendenze spesso prevaricatrici, per garantire una certa trasparenza nelle scelte, per difendere l'idea di una democrazia partecipativa nell'istituzione. Se davvero le nuove norme dovessero affidare unicamente ai poteri discrezionali del Preside la scelta del vicario,3 questo, se vorrà ancora conservare il suo incarico, dovrà per forza essere un suo alleato "fedele", che è più e peggio di un amico leale e corretto.

I ministri democristiani ci hanno dato una scuola democratica, un ministro marxista ci restituisce una scuola "feudale".

Discriminazione dei sindacati di base

Questi sindacati hanno dimostrato notevoli capacità di mobilitazione della categoria, mentre la cgil con la scuola non ha mai avuto buoni rapporti: tutti sappiamo che quando i governi di centro offrivano spontaneamente gli aumenti per gli insegnanti, la cgil si opponeva perché ci considerava dei privilegiati.

Ma dove sono più i privilegi degli insegnanti rispetto alle altre categorie? Non ci sono più le pensioni facili, ed è giusto. Ma non ci sono più neanche gli scatti biennali di anzianità e bisogna sempre di più lavorare di pomeriggio a scuola oltre che preparare il lavoro per il giorno seguente a casa.

Ma anche adesso che si è sempre più penalizzati nel rapporto di lavoro, i docenti sono attaccati dai sindacati confederali e in special modo dalla cgil. Appena il nuovo ministro De Mauro ha parlato di aumenti, il Sig. Cofferati ha intimato l'alt.4

Tutto ciò accade col sostegno dei partiti di sinistra, anche se questi sindacati non sono più realmente rappresentativi della categoria. I pochi insegnanti iscritti alla cgil, operavano questa scelta solo per motivi ideologici; oggi questi motivi non sono più sufficienti per accalappiare lavoratori che poi, non solo non vengono difesi ma sono in molti casi osteggiati.

Anche gli insegnanti di sinistra si stanno avvicinando sempre di più ai sindacati di base (Cobas, Unicobas e Gilda), ma il governo di sinistra non riconosce questi sindacati ai fini degli accordi contrattuali e del diritto all'assemblea in orario di servizio. Uno dei motivi di questa esclusione consiste nel fatto che essi non raggiungono il 5% degli iscritti, e questo può essere anche comprensibile. L'altro motivo è però meno nobile: è previsto da una norma che a quel 5% ci si possa arrivare anche calcolando la percentuale ottenuta nelle elezioni delle RSU (Rappresentanze Sindacali Unitarie), che si dovevano tenere già l'anno scorso; le elezioni però sono state rinviate e così si è tolta a questi sindacati la possibilità di rappresentare quella maggioranza di insegnanti che il 17 febbraio ha scioperato ed ha partecipato ad una grossa manifestazione a Roma contro la politica di Luigi Berlinguer5 (conviene sempre precisare anche il nome per non intaccare ingiustamente la diversa statura politica di Enrico Berlinguer).

Manipolazione dell'informazione

Dopo mesi di contestazione il ministro della P.I. ha accettato di partecipare alla trasmissione televisiva Porta a porta, molto seguita da chi è interessato alla vita politica e sociale e condotta dal giornalista per tutte le stagioni Bruno Vespa.

Gli interlocutori erano però tutte persone che la pensavano come il ministro.

Sbagliamo di molto se ci permettiamo di accusare il ministro di vigliaccheria e il conduttore televisivo di inosservanza dei principi di deontologia professionale? Sono argomentazioni sostenute dal quotidiano comunista Liberazione del giorno seguente a quello della trasmissione e che condivido pienamente: il ministro doveva avere il coraggio di confrontarsi con coloro che avevano organizzato lo sciopero, non con gli amici di contratto ed alcuni giornalisti filogovernativi.

I Democratici di Sinistra e la scuola

Per i DS questa politica scolastica ha già avuto brutti effetti elettorali.

Essi non dovrebbero cullarsi sull'analisi molto approssimativa che, dei risultati delle elezioni regionali, ha fatto il sondaggista, prof. Renato Mannheimer, il giorno seguente alle votazioni. Non ho capito infatti come il professore potesse disporre di analisi così specifiche a sole ventiquattro ore dalla chiusura dei seggi elettorali, praticamente prima di avere la disponibilità dei risultati definitivi.

Il questionario da noi fatto parla chiaramente di un grande malessere delle categoria, un malessere che non può non avere anche risvolti politici. A questi risvolti la sinistra deve stare bene attenta, chiedendosi se sia valsa la pena di difendere la politica di un ministro così poco accorto, così insipiente, così pauroso di confrontarsi, seriamente e con la "par condicio", con gli insegnanti che ne erano ormai divenuti la controparte; un ministro che chiedeva agli insegnanti di lettere e di matematica di elaborare "strategie educative" e poi perdeva clamorosamente battaglie e guerre, coinvolgendo nelle sue disfatte anche chi aveva l'unica colpa di averlo sostenuto.

CONTRATTO '99: IL LINGUAGGIO SINDACAL-PEDAGOGICO

Da secoli esiste la pedagogia ed esiste il linguaggio pedagogico, con i suoi concetti portanti specifici, quelli di Comenio e di Rousseau, che affondavano le radici nella filosofia, e quelli di Dewey e della Montessori, più attenti alla sperimentazione e alle premesse psicologiche.

Da circa trent'anni è nato il "sindacalese", il linguaggio che occorreva per le rivendicazioni della classe lavoratrice e soprattutto per riuscire a formulare i compromessi cui sistematicamente si doveva pervenire con la controparte.

Con l'ultimo contratto del comparto scuola del '99 e con i Regolamenti ministeriali degli ultimi due anni si è verificato, a livello di linguistico, un fatto veramente eccezionale. I due linguaggi di cui dicevamo prima si sono miracolosamente fusi, facendo nascere, dietro un paravento giuridico, il linguaggio sindacal-pedagogico (il "didattichese" per Mario Pirani della Repubblica – giugno '99), che purtroppo è un linguaggio criptico perché, bene che vada, è decifrabile solo dai soggetti che lo hanno partorito: i sindacalisti firmatari e gli esperti del ministro.

Non è un fenomeno da prendere sotto gamba, perché esso ha solide motivazioni politiche. La cgil, sindacato ora vicino al governo, non ha mai pescato a piene mani fra gli insegnanti, come è invece riuscita a fare in altri settori lavorativi; i dati ufficiali parlano del 9% circa di iscritti sul totale degli insegnanti.6 Questo sindacato aveva quindi tutto l'interesse di cercare di conquistare un suo spazio anche in questa categoria di lavoratori.

Sull'altro fronte della finta barricata, per il contratto, c'era un politico alla ricerca affannosa e disperata di visibilità, il diessino Berlinguer, il quale, spinto dalle sue velleità, ha progettato il progressivo smantellamento delle scuola gentiliana.

Berlinguer non aveva però una caratura culturale tale da potersi permettere di misurarsi col filosofo che lo ha preceduto di settant'anni. Ma lui non si è posto il problema, è partito a testa bassa dall'idea centrale di quell'altro grande uomo di cultura che è il leghista e secessionista Bossi ed ha annunciato a più di settecentomila insegnanti, da sottoporre poi immediatamente ai quiz, il suo verbo: l'autonomia. Ma per far passare politicamente questa rivoluzione, non supportata da alcuna analisi e da alcun serio progetto, aveva bisogno dei sindacati.

Berlinguer ed i sindacati confederali avevano dunque bisogno l'uno dell'altro e questo era il momento giusto per aiutarsi. Ecco la saldatura fra due centri di potere e di interessi ed ecco come si spiega la sintesi fra i due linguaggi, che ha dato luogo al gergo e alla sintassi "buropedagogica".

Questo nuovo linguaggio ha trovato una consacrazione ufficiale in alcuni testi normativi del Governo ( primo fra tutti il dpr 275 dell' 8/3/99 istitutivo e regolatore dell'autonomia) e nell'ultimo contratto, anche se vi erano già i prodromi in alcuni testi ministeriali precedenti.

Il contratto in molti punti è, sotto il profilo del linguaggio, una congerie di vaghe quanto alte enunciazioni di bei principi, quasi una piccola Costituzione.

Una volta i contratti più o meno dicevano che si doveva lavorare tot ore alla settimana in determinate condizioni e che per i successivi tre anni c'era un aumento retributivo del tot %. Questo contratto no, questo è una cosa seria. Ad esempio, al 1°comma dell'articolo 23 esso recita: "La funzione docente si fonda sull'autonomia culturale e professionale dei docenti" e al 2° comma dell' articolo 19 dice invece che "Il capo d' istituto assicura la gestione unitaria dell'istruzione scolastica e la finalizza all' obiettivo della qualità dei processi formativi".

Parole che volano molto alto.

Peccato che sembrino scontrarsi e cadere miserevolmente a terra.

IL POF FA FLOP

Proviamo a capire alcuni punti cardine della rivoluzione berlingueriana e "paninista" (dal "preside" Panini, segretario nazionale della cgil scuola) partendo dal POF.

La definizione ufficiale del pof è tutta berlingueriana ed è contenuta nel dpr 8/3/99 n. 275 all'articolo 3, 1° e 2° comma: "Il piano è il documento fondamentale costitutivo dell'identità culturale e progettuale della istituzione scolastica ed esplicita la progettazione curricolare, extracurricolare, educativa ed organizzativa che le singole scuole adottano nell'ambito della loro autonomia. Il pof è coerente con gli obiettivi generali ed educativi dei diversi tipi ed indirizzi di studi determinati a livello nazionale a norma dell'articolo 8 e riflette le esigenze del contesto culturale, sociale ed economico della realtà locale, tenendo conto della programmazione territoriale dell'offerta formativa. Esso comprende e riconosce le diverse opzioni metodologiche, anche di gruppi minoritari e valorizza le corrispondenti professionalità",

In relazione a questa definizione si pongono alcune domande: 1) postulare che ogni istituto scolastico debba avere una propria identità culturale e progettuale è del tutto arbitrario e costituisce una scelta che nessun politico assennato dovrebbe condividere in uno Stato in cui forse il primo obiettivo è quello di colmare il divario economico ed infrastrutturale delle due zone in cui esso è ancora profondamente diviso. La scuola oggi in Italia deve avere obiettivi simili su tutto il territorio nazionale. Le specificità possono riguardare i singoli indirizzi di studi ( licei, istituti tecnici di vario tipo ecc,) non la dislocazione territoriale delle scuole, a meno che non si voglia essere contagiati dal bossismo prima maniera. Cosa vuol dire che il pof, secondo la norma prima citata, deve riflettere le esigenze del contesto culturale, sociale ed economico della realtà locale ? Forse che le conoscenze economiche e tecnologiche, il moderno know how, debbano essere appannaggio del Nord e quelle umanistiche ed artistiche appannaggio del Sud ? E in tal caso in quale modo il Sud potrà decollare economicamente? 2) Quale organo è deputato a "formulare la programmazione territoriale dell'offerta formativa"? Il Comune, il Distretto scolastico, la Provincia o quale altro? 3) Che vuol dire che "gruppi minoritari" possono fare particolari "opzioni metodologiche"? L'obbligo di essere chiari e precisi vale per il ministro della P.I. prima ancora che per i docenti.

Se a marzo del '99 Berlinguer ci ha regalato quella bella definizione del pof, a maggio il suo amico di merenda, Panini, ci ha dato gli strumenti per realizzarlo. L'articolo 28 del ccnl, al 1° comma, recita così: " la risorsa fondamentale è costituita del patrimonio professionale dei docenti, da valorizzare per l'espletamento di specifiche funzioni-obiettivo riferite alle seguenti aree: gestione del pof, sostegno al lavoro dei docenti, interventi e servizi per gli studenti, progetti formativi". Questo articolo credo sia tutta opera dei "paninisti".

Se dunque, ad elaborare il pof, almeno formalmente ci dovrebbe pensare il Collegio dei docenti, ad attuarlo ci pensano solo quattro docenti per ogni scuola. In teoria questi quattro docenti dovrebbero essere scelti in base a "qualità professionali documentate", ma la pratica è diversa. Non sempre e necessariamente i migliori, ma quelli più affetti da rampantismo cronico sono quelli che con maggiore entusiasmo si buttano sui tre milioni e lottano per le prospettive di un rapido e felice avanzamento di carriera, che porterà altri sei milioni, per un totale di nove milioni lordi. Come possono dimostrare di essere quelli più "bravi"? Nella migliore delle ipotesi, dichiarando di aver seguito cinquanta corsi del Cid (l'associazione che fiancheggia Panini) o duecento corsi dell'Ucim (gli insegnanti cattolici) o di aver fatto dei progetti (lautamente finanziati dalla Regione); nell'ipotesi peggiore, e più frequente, chiedendo il voto ai colleghi in nome dell'amicizia. Alla fine, nella maggior parte dei casi, il magico ingranaggio di Panini per la selezione si è risolta con delle elezioni, in cui i dirigenti scolastici hanno quasi sempre fatto pesare la loro forza di condizionamento o la loro influenza.

Poche righe del citato articolo 28 del ccnl sono sufficienti per cogliere dunque una contraddizione: da un lato si parla di valorizzare il patrimonio professionale di tutti i docenti, dall'altro questa valorizzazione finisce per interessare solo pochissimi di essi, i quali, dopo aver ottenuto il voto dai colleghi, si trasformano in amici del preside-manager e collaborano con questo, aiutandolo magari nella conquista di meriti e gratificazioni presso le Direzioni regionali, e sottopongono gli "ex colleghi" a inutili lavori burocratici, fatti di compilazione di schede assurde, griglie e questionari e di riunioni sempre più frequenti e piene di polemiche e litigi.

UNA LEZIONE DA CINQUANTA MINUTI

Non tutti gli insegnanti sono tenuti a portare nel loro bagaglio culturale una esperienza universitaria di Diritto pubblico. E' quindi ovvio che per alcuni non sempre riesca facile cimentarsi con l' interpretazione di quella vasta e farraginosa normativa che regola le loro funzioni come singoli lavoratori e come membri di organi collegiali e ciò anche perché l' iniziativa, con cui il ministro della funzione pubblica Bassanini ha cercato di ricondurre il "burocratese" nell'alveo del linguaggio accessibile almeno ai volenterosi, non ha avuto il minimo successo.

Chi fra gli insegnanti vuole avvicinarsi a queste tematiche, lo fa in genere in occasione di un problema personale da risolvere (trasferimenti, concorsi, orario di lavoro, diritto di assentarsi ecc.) e ricorre a due tipi di strumenti: riviste e notiziari di legislazione scolastica e la consulenza di sindacalisti, che, in molti casi, devono il successo nelle posizioni conquistate più ad una infarinatura sull'argomento, valorizzata dai rapporti di amicizia che sanno crearsi nei Provveditorati, che all'azione sindacale vera e propria in difesa della categoria.

Per dare a tutti gli operatori della scuola la possibilità di affrontare con consapevolezza i problemi che nascono nell'ambito della scuola, lo Stato dovrebbe emanare testi normativi organici (testi unici e decreti legislativi) in grado di fagocitare quella miriade di decreti e circolari che riescono a far girare la testa al più incallito specialista. L'ultimo testo unico in materia scolastica risale al '94, ma è già stato ampiamente modificato ed integrato da nuove norme, che si riversano sulle spalle dei dirigenti scolastici, per i quali ormai il lavoro principale non è più l'organizzazione didat-tica e amministrativa, ma la decifrazione di questa valanga di norme che piove loro addosso gior-nalmente.

Un altro modo per far fronte al problema sarebbe quello di fornire ogni anno le scuole di quelle rac-colte di norme aggiornate, fatte da esperti in materia (Zanobini, Giannarelli e altri). Ma chi dovrebbe farsi carico di dotare le scuole di questi indispensabili strumenti? Il ministero non se n'è mai occupato. I dirigenti scolastici potrebbero acquistare questi testi con i fondi della scuola e dare a tutti gli interessati la possibilità di consultarli, ma non lo fanno neppure loro. I singoli insegnanti ovviamente non hanno convenienza a spendere centinaia di migliaia di lire l'anno per avere uno strumento da consultare solo occasionalmente.

Così si resta in balia di una marea di materiale cartaceo, scaricato giornalmente sulle scuole da Ministero e Provveditorati e che gli impiegati di segreteria non hanno il tempo e gli strumenti per archiviare in modo razionale; con la conseguenza che, quando si ha bisogno di conoscere una norma per risolvere un caso, la ricerca è difficile e se ha buon esito implica comunque un grande dispendio di tempo e di energie, che spesso induce l'interes-sato a rinunciare alla ricerca stessa e a risolvere il problema con l'aiuto del buon senso, frutto della pratica quotidiana.7

Queste considerazioni riguardano la mole e la disorganicità della legislazione scolastica, ma c'è anche un altro importante aspetto da considerare e cioè la difficoltà di interpretazione delle singole norme. Ognuna di esse non regola mai in modo chiaro il rapporto che ne è oggetto: vi sono sempre riferimenti a un considerevole numero di norme precedenti, con cui non di rado entra in contrad-dizione, e inoltre la formulazione è spesso talmente vaga da dare adito a tante interpretazioni per quanti sono i soggetti interessati.

Prendiamo come esempio un caso che si è posto effettivamente in molte scuole.8

Il Collegio dei docenti delibera di ridurre la durata delle lezioni da 60 a 50 minuti perché altrimenti gli alunni pendolari non fanno in tempo a prendere i mezzi per tornare a casa. Le ore di lavoro settimanali di ciascun docente si riducono da 18 a 15 e si pone il problema se queste tre ore vadano recuperate.

Prima di inoltrarci nell'analisi dell'eterogenea normativa che regola il caso, che va dal d.lgs 29/93 alle cm 243/79, 192/80, 62/97, al ccnl 94/97 e all'interpretazione autentica data dalle parti contraenti all'articolo 41 dello stesso contratto il 17/9/97, prima di questa analisi, dicevamo, proviamo ad esaminare il problema da un punto di vista sindacale.

Quando un insegnante sta in classe 50 minuti anziché 60, il lettore mi scusi il paradosso, egli non lavora di meno. In quei 50 minuti infatti deve fare le stesse cose che prima faceva in 60 minuti: deve sempre fare le dovute annotazioni, ma più in fretta, sul registro di classe e su quello personale; deve sempre spiegare un argomento, ma più in fretta; deve sempre fare le verifiche, ma più in fretta. Tutta questa fretta – si badi che 50 minuti per tutto quello che c'è da fare in una classe sono veramente pochi – si traduce in un maggiore stress sia per l'insegnante che per gli alunni; in termini di lavoro effettivo si traduce in un aumento di produttività.

Ci chiediamo ora se sia giusto che il datore di lavoro chieda il recupero di quei 10 minuti lavorativi, in realtà già recuperati sotto forma di aumento di produttività.

Facciamo un esempio analogo relativo a un tipo di lavoro più facilmente quantificabile, che ci consenta di capire meglio il problema: supponiamo che un'operaia di un'industria tessile lavori sei ore al giorno e che in un'ora debba attaccare i bottoni a cinque camicie; la sua produzione settimanale sarà pari a 5 camicie per 6 ore giornaliere per 6 giorni lavorativi, cioè 180 camicie. Se l'imprenditore riduce il lavoro giornaliero da sei a cinque ore ma impone di completare in un'ora sei camicie al posto di cinque, la produzione settimanale della lavoratrice sarà sempre pari a 180 camicie: 6 camicie per 5 ore giornaliere per 6 giorni lavorativi. Quell'operaia, pur lavorando per un tempo minore, mantiene la stessa produzione settimanale, perché lavora più velocemente. Se l'imprenditore le chiedesse di recuperare la sesta ora, la lavoratrice potrebbe giustamente rifiutarsi o pretendere un aumento del salario.

Credo che sotto il profilo della protezione dei diritti del lavoratore l'analisi proposta con l'esempio dell'operaia sia trasponibile al lavoro dell' insegnante, il quale però non può chiudere la vertenza solo in base all'accordo contrattuale, ma deve attenersi anche a quanto previsto dalla normativa extracontrattuale. Vediamo dunque cosa dicono a tal proposito le norme prima citate.

L'articolo 41 del ccnl 94/97, al 4° comma, dice che "qualora siano state deliberate sperimentazioni autonome….che comportino la riduzione della durata dell'unità oraria di lezione, i docenti completano l'orario d'obbligo con attività connesse alla sperimentazione". Questa norma prescrive chiaramente il recupero dei 10 minuti, subordinandolo però al verificarsi di una condizione e cioè che la riduzione sia dovuta alla sperimentazione; solo nelle scuole in cui tale condizione si verifica, l'insegnante è condannato, per contratto sottoscritto da alcuni sindacati, a recuperare i dieci minuti per ogni lezione, corrispondenti a tre ore settimanali, nonostante l'aumento di produttività determinato proprio, come visto nell' esempio della camiciaia, dalla riduzione di orario.

Meno sfortunati sembrerebbero i docenti di quelle scuole, e sono tante, in cui la riduzione è stata deliberata per motivi diversi da quelli previsti dall'articolo 41. Si tratta in pratica di tutte le scuole medie superiori di quelle cittadine di provincia frequentate da un'alta percentuale di alunni che risiedono in comuni vicini e che ogni giorno devono raggiungere la scuola con treni o autobus, aggiun-gendo al lavoro scolastico una o più ore di viaggio e di attesa dei mezzi di trasporto.

Poiché alcuni dirigenti scolastici, sempre più zelanti soprattutto quando si tratta di far lavorare gli altri, cercano di applicare le tre ore di recupero anche in questi casi, si è reso necessario un chiarimento sull'art. 41 del ccnl. Ciò è stato fatto con nota interpretativa delle parti contraenti il 17/9/97, la quale dice che nelle scuole con molti alunni pendolari gli insegnanti non recuperano le tre ore settimanali.

Sembra che giustizia sia fatta. Invece no, perché, riprendendo le cm 243/79 e 192/80, i dirigenti sostengono che, se non si accetta il recupero delle tre ore, la riduzione potrà essere applicata non a tutte le lezioni ma solo ad alcune9 e che i problemi legati alla "pendolarità" possono essere risolti con l'uscita anticipata. Gli alunni in base a questa decisione potrebbero non stare più a scuola, ad esempio, dalle 8.30 alle 13.30 ma dalle 8.00 alle 13.40, cioè per cinque ore e quaranta minuti al giorno, cui bisognerà aggiungere il tempo per lo svolgimento dei compiti e, per i pendolari, quello necessario per i viaggi di andata e ritorno.

Le citate circolari prevedono effettivamente questa possibilità, però non dicono espressamente quale sia l'organo deputato a decidere in materia. Questo lo dobbiamo ricavare dalle attribuzioni assegnate ai vari organi della scuola: dirigente scolastico, Consiglio d'istituto, Collegio dei docenti.

L'art. 19 del ccnl, al 2° comma, assegna al capo d'istituto il compito di predisporre " gli strumenti attuativi del piano dell'offerta formativa". L'art. 3 del dpr 275/99 sull'autonomia , al 1° comma, stabilisce che il pof " esplicita la progettazione curricolare, extracurricolare educativa ed organizzativa" delle singole scuole e che "riflette le esigenze del contesto culturale, sociale ed economico della realtà locale". Al 3° comma lo stesso articolo stabilisce che "il pof è elaborato dal collegio dei docenti….tenuto conto delle proposte e dei pareri formulati dagli organismi e dalle associazioni anche di fatto…degli studenti".

Dall' incastro logico delle norme citate sembra di poter desumere che in materia di orario scolastico le decisioni debbano coinvolgere diversi soggetti e seguire un iter ben preciso: 1) Il Collegio dei docenti chiede un parere agli alunni; 2) Lo stesso Collegio dei docenti, tenuto conto di tale parere nonché delle esigenze degli utenti anche in relazione al contesto logistico della realtà locale, inserisce nel pof le indicazioni relative all'orario curricolare; 3) Fino all'1/9/2000 sarà lo stesso Collegio dei docenti ad adottare il pof e decidere quindi sull'orario delle lezioni; dopo tale data, l'adozione del pof sarà di competenza del Consiglio d'Istituto.

C'è una logica in questa interpretazione? Il punto nodale relativo alla definizione della durata delle attività curricolari non è quello di esigere comunque, dagli insegnanti, delle prestazioni per il "tempo" pagato, che nell'insegnamento non è il fattore determinante, bensì quello di rendere il miglior servizio possibile agli alunni.

Per arginare le conseguenze occupazionali del calo demografico degli ultimi decenni, purtroppo la politica scolastica si è basata sull'aumento sconsiderato del numero di ore settimanali di lezione per gli alunni. Per mantenere le cattedre si poteva ridurre il numero di alunni per classe, anziché portare mediamente le lezioni giornaliere da cinque a sei e quelle settimanali da 30 a 36. La scelta didatticamente controproducente di aumentare al di là di ogni logica il numero di lezioni giornaliere diminuendone la durata unitaria, ha danneggiato gravemente gli alunni, i quali ogni giorno si ritrovano con l'appesantimento di un già gravoso fardello di compiti: sei materie al posto di cinque.

Allungare ulteriormente la giornata scolastica dell'alunno facendogli fare sei lezioni di cui tre o quattro da sessanta minuti, "unicamente" per poter recuperare i dieci minuti di lezione degli insegnanti, significherebbe aggiungere errore ad errore.

In ogni caso tale decisione non può essere presa dai dirigenti scolastici perché non è di loro competenza.10 Il Collegio dei docenti o il Consiglio di Istituto da parte loro certamente non potrebbero mai decidere nel senso di un ulteriore allungamento dell'orario delle lezioni, perché conoscono le esigenze degli alunni e non hanno al centro dei loro interessi un atteggiamento di insulsa fiscalità nei confronti degli insegnanti.

AUTONOMIA, DEMOCRAZIA, LIBERTA'

La prospettiva di avere una scuola con una più ampia autonomia didattica ed organizzativa aveva acceso gli animi di molti insegnanti di aspettative positive.

L'autonomia avrebbe dovuto essere la chiave d'accesso per una maggiore democrazia partecipativa nelle singole scuole e per un rafforzamento della libertà di insegnamento, finora imbrigliata da programmi ministeriali non adeguati ai tempi.

Quando il principio di autonomia ha trovato, almeno in parte, attuazione attraverso norme specifiche, si è scoperto di andare in una direzione completamente opposta a quella attesa. Invece di organi collegiali più efficienti e con maggiori poteri, ci si è trovati di fronte il preside-manager. Invece di una più libera determinazione del singolo insegnante nell'adeguare i contenuti ed i metodi di insegnamento alle esigen-ze culturali della società, ci si è trovati di fronte l'istituzione di "pof", che all'interno di ogni scuola mortificano e talvolta distruggono la capacità di ideazione del singolo, per stringerlo con una serie di nuovi vincoli, che trovano un fragile fondamento culturale nell'idea che ogni scuola debba avere una sua identità, affondando le sue radici nel contesto in cui opera. Tale fondamento è fragile perché la scuola non dovrebbe più essere cinghia di trasmissione di valori condivisi per tradizione, ma fucina di idee nuove. Se da un lato la scuola deve recepire gli orientamenti della società, dall'altro deve a sua volta poter proporre alla società nuovi modelli culturali, siano essi creati ex novo come pure mutuati da altre realtà e opportunamente modificati.

Questa azione propulsiva e talvolta dirompente non è attuabile mediante il sacrificio del singolo alle scelte del gruppo. Soprattutto non lo è, se questo gruppo non ha al suo interno un'articolazione democratica, ma si struttura in base a meccanismi legislativi che spingono a delegare le scelte a pochi soggetti, i quali nel lavoro di progettazione trovano un vincolo nell'orientamento del dirigente o peggio sono motivati solo da una prospettiva di sviluppo di carriera.

Il piano dell'offerta formativa è stato percepito come un nuovo strumento di coercizione, che si sostituisce a quei meccanismi burocratici che da troppo tempo soffocano la creatività e le ambizioni del singolo. Cos'altro può significare il fatto che un gruppetto di insegnanti elabori, proponga e spesso imponga un progetto educativo a tutti i colleghi? E' vero che è prevista la discussione del progetto da parte di tutto il Collegio dei docenti, ma un conto è l'elaborazione diretta, un altro conto è il limitarsi ad apportare , come avviene nella prassi, qualche modifica con discussioni per lo più frettolose e disattente. In ogni caso questo testo così modificato potrà sempre essere ampiamente rimaneggiato da un Consiglio di Istituto, che vede al suo interno una componente sempre più minoritaria dei docenti e generalmente pilotato dal dirigente scolastico, le cui capacità di pressioni su tutte e tre le componenti (docenti, genitori, alunni) non è mai da sottovalutare.

Ma quand'anche il pof venisse elaborato ed approvato direttamente dagli insegnanti, non si sfuggirebbe a quel fenomeno deleterio di usurpazione delle prerogative di libertà del singolo insegnante garantite, non senza fondamento, dai nostri principi costituzionali e dall'art. 1 del d.lgs.297/94, per il quale tale libertà è da intendere come autonomia didattica e libera espressione culturale del docente.11 Ci sarebbe sempre una maggioranza che finirebbe per imporre ad una minoranza i propri principi etici ed il credo pedagogico che da questi scaturisce.

Ma perché questa difesa della libertà del singolo in una società che tende a programmare ed inglobare sempre e ovunque nel tutto? Perché, se nella creazione di opere materiali la collettività è più produttiva dell'individuo, nella creazione di opere dell'ingegno il singolo continua ancora oggi ad essere migliore del gruppo (le ricerche in équipe sono solo lo sviluppo delle intuizioni di un singolo ricercatore).

L'insegnante delle scuole elementari e medie deve avere la stessa libertà didattica del docente univer-sitario, che stabilisce il suo programma in base agli specifici interessi coltivati e alle ricerche compiute ed al quale nessuno si sognerebbe mai di imporre un piano dell'offerta formativa.

MANAGER PER UN ANNO

I circa diecimila presidi della scuole italiane dal settembre duemila diventeranno managers. Sulla carta, per ora, i loro poteri decisionali restano alquanto limitati per via di alcune vecchie attribuzioni che rimangono al Consiglio d'Istituto e al Collegio dei docenti e di alcune attribuzioni nuove, di cogestione e controllo, affidate ai rappresentanti sindacali. Nella realtà la frantumazione dell'organizzazione scolastica in piccole isole culturali poco collegate fra di loro, così come voluto dalle riforme che hanno investito e stravolto la scuola, crea per essi margini di potere sempre più ampi. Il peso di chi è divenuto responsabile dell'andamento unitario di ogni unità scolastica ha infatti anche un forte impatto psicologico sulle fasce di insegnanti più deboli (precari) e opportunisti (quelli che hanno motivo di temere il dirigente perché lavorano poco o che lo corteggiano per avere qualche favore).

Le prospettive di nuovi assetti del potere non sono però l'unico elemento che attrae l'esercito dei diecimila presidi nella nuova situazione che si è venuta a creare. Quello che forse condiziona ancora di più il loro comportamento è la prospettiva di consistenti miglioramenti economici.12

Si tratta di persone che hanno alle spalle quindici o venti anni di carriera da insegnanti ed altri quindici o venti da presidi. Sono dunque tutti lavoratori prossimi alla pensione; anzi tutte persone che hanno maturato il diritto ad andare in pensione, ma che non lo fanno per un motivo semplicissimo: aspettando ancora uno o due anni, vengono inquadrati in una posizione stipendiale molto più alta, che darà loro diritto ad una pensione anch'essa più alta.

Ci troviamo dunque di fronte a questo fenomeno: diecimila dipendenti della pubblica istruzione imparano - ma davvero imparano ? e chi glielo insegna ? - a svolgere funzioni dirigenziali e, dopo uno o due anni al massimo, tutta questa scienza viene disseminata sul terreno infertile della vita da pensionati.

Ma la storia non finisce qui . Essa si ripeterà per quelle fasce di insegnanti che col massiccio turnover prenderanno il loro posto. L'unica differenza è che si tratterà per lo più di insegnanti che potranno reggere non per uno ma per cinque o sei anni. Anche questi avranno appena il tempo di imparare il nuovo mestiere che subito andranno ad ingrossare la schiera dei pensionati.

Le pensioni calcolate col sistema retributivo rendono queste operazioni molto appetibili per presidi ed aspiranti presidi, mentre per lo Stato comporterà una crescita notevole delle spese, senza peraltro ottenere un miglioramento di rilievo nella qualità dell'insegnamento.

Chi saranno poi i nuovi aspiranti presidi? Si tratta di docenti che hanno "appositamente" imparato in modo più o meno posticcio il didattichese berlingueriano. Sono quelli delle festicciole di accoglienza agli alunni nuovi, dei corsi di recupero per gli alunni con poca voglia di studiare, dei progetti fantasma finanziati coi soldi della collettività; sono quelli che oggi spalleggiano gli attuali presidi, per essere favoriti domani negli incarichi per le funzioni obiettivo, nell'avanzamento di carriera e infine, obiettivo principe, per il concorso a dirigente che li legittimerà definitivamente all'esercizio del comando.

Sapranno questi falchi, esperti nelle vecchie arti italiche del clientelismo e dell'intrigo, riportare la scuola sui binari della serietà e della democrazia? Date le premesse utilitaristiche e pragmatiche da cui partono, c'è da dubitarne fortemente. Solo una cosa è certa: se in materia pensionistica non si passa dal sistema retributivo a quello contributivo13, avranno, buon per loro, una vecchiaia molto più serena ed agiata di quei poveri colleghi che, seguendo l'esempio cristiano, hanno scelto di rimanere "semplici come colombe".( S. Matteo 10,16)

RIFORME E BUSINESS

Forse è new economy anche questa. Sulla vasta, incompresa ed incomprensibile produzione normativa relativa alla scuola, due settori dell'economia hanno avuto o cercato di avere un aumento del fatturato: l'editoria e le associazioni sindacali.

Il primo ha visto il fiorire di opportunistiche iniziative in tempi record. Il Sole 24 Ore pubblica da ottobre del '99 un quindicinale dedicato agli operatori della scuola: costo dell'abbonamento annuale lire 190 mila col 20 % di sconto per il primo anno.

Il quotidiano Italia Oggi, più o meno dallo stesso periodo, ogni martedì, dedica otto facciate del giornale ai problemi e alle nuove norme scolastiche; poiché a distanza di oltre dieci mesi continua a farlo, vuol dire che l'incremento delle vendite è ritenuto sufficiente a coprire i maggiori costi sostenuti per quelle otto pagine.

Queste nuove attività editoriali vanno ad aggiungersi a quelle già esistenti, come Scuola e Didattica (quindicinale di didattica e legislazione molto diffuso nelle scuole medie inferiori), l'Informatore scolastico (quindicinale di legislazione), Scuolainsieme (trimestrale di guida e commenti alle nuove norme), e altri.

Per quanto riguarda i libri si possono fare solo delle congetture, ma è difficile pensare che ad un incremento delle vendite di riviste specializzate non corrisponda un sia pur piccolo incremento nelle vendite di libri dedicati ai nuovi problemi della scuola.

A tutti i guadagni dell'editoria corrispondono naturalmente delle spese per i docenti, che il Ministero della P.I. non riesce ad informare direttamente14 e non pensa minimamente di rimborsare almeno con delle detrazioni fiscali.

Se l'editoria ha saputo abilmente mettere a frutto le aspettative ed i timori collegati ai fermenti organizzativi dell'istruzione, il tentativo di speculazione economica e di sfondamento culturale nella categoria degli insegnanti non è invece riuscito alle grandi organizzazioni sindacali. Questo tentativo ha infatti avuto la stessa sorte del concorsone: aborto provocato da coloro che hanno avuto sentore di imbrogli.

Quando a fine dicembre del '99 gli insegnanti hanno saputo in quale modo si poteva più o meno partecipare alla lotteria dei sei milioni annui, è iniziata la ricerca delle vie diritte e traverse per ottenere l'ambìto premio.

Le vie diritte consistevano nello studiare per poter dare le risposte giuste alle trenta domande del quizzone , relative a "modalità di raggiungimento degli obiettivi, unità didattiche e moduli a scansione temporale, interventi di recupero, orientamento, sussidi e strumenti anche multimediali, tipologie di prove di verifica, punteggi e livelli di standar-dizzazione, processi di innovazione in atto nella scuola italiana" eccetera. Fino al quattro aprile, data stabilita per le prove scritte, c'era però troppo poco tempo per cercare una bibliografia decente e studiare cose da sempre messe in atto nel lavoro quotidiano, ma la cui conoscenza dei principi teorici non era mai stata né suggerita né pretesa in venti o trent'anni di insegnamento.

L'ansia degli insegnanti di fronte a questo esame, atipico per modalità di svolgimento e finalità, era grande; il pericolo di non rientrare in quel 20 % di vincitori stabilito dal contratto di categoria aveva un risvolto sociale e psicologico oltre che economico. E intanto in questa situazione di incertezze e frustrazioni, si avvertiva la sensazione che i soliti furbi avrebbero trovato il modo di aggirare gli ostacoli in modo più destro rispetto agli altri.

In realtà le vie traverse esistevano e qualcuno già si accingeva a percorrerle. I sindacati confederali, lo Snals, il Cid e l' Ucim si erano già messi in azione per dare una mano ai propri iscritti. Per chi non era iscritto ad una di queste associazioni no profit, la cosa migliore era quella di iscriversi immediatamente, pagando una tangente di circa 250 mila lire annue per l'iscrizione e una di circa 200 mila lire, una tantum, per la "preparazione" al concorso. Se l'operazione fosse riuscita, ci sarebbe stato per queste associazioni un rilevante incremento delle entrate. Se solo un 30 % di insegnanti avesse percorso questa via, si sarebbero ricavati circa 100 miliardi in più nel primo anno e circa 50 miliardi in più negli anni successivi, nei quali si sarebbe percepita solo la quota di iscrizione.

Per merito o fortuna degli insegnanti questo tentativo di speculazione è andato male. Si è infatti capito che iscrivendosi in massa, i sindacati, non potendo aiutare tutti, avrebbero finito per avere un occhio di riguardo per quelli iscritti da più tempo o meglio collocati dal punto di vista politico.

Il risultato è stato l'opposto di quello voluto e programmato freddamente al tavolo delle trattative per il rinnovo del contratto. Le organizzazioni sindacali firmatarie del contratto non solo non hanno avuto nuove iscrizioni, ma hanno perso qualche vecchio tesserato. I partiti politici, che avevano organizzato la lotta intestina fra gli insegnanti, in aprile hanno avuto pessimi risultati elettorali e in maggio hanno perso la scommessa sul sistema elettorale maggioritario.

GLI ORGANI COLLEGIALI

Fino al 1974 la scuola italiana escludeva da ogni decisione di tipo organizzativo e didattico gli alunni e le famiglie e dava agli insegnanti un ruolo piuttosto limitato rispetto alle direttive del dirigente scolastico. I decreti delegati di quell'anno posero fine a queste esclusioni, istituendo in ogni scuola gli organi collegiali: il Consiglio di classe (preside, insegnanti, studenti e genitori), il Consiglio di istituto (stesse componenti del Consiglio di classe) e il Collegio dei docenti (preside e insegnanti). Per ognuno di questi organi i decreti delegati hanno stabilito le attribuzioni e le regole fondamentali di funzionamento.

L'obiettivo principale che quei decreti volevano raggiungere era quello di rafforzare le forme di democrazia partecipativa all'interno di una struttura scolastica fino ad allora autoritaria, ma che in quegli anni veniva pesantemente investita da una impetuosa, a tratti dirompente, contestazione da parte della società civile, in generale, e degli studenti universitari e medi, in particolare.

A distanza di circa venticinque anni dalla loro istituzione, questi organi rischiano di subire, nelle situazioni di fatto ancor prima che in nuove norme, una ristrutturazione in senso autoritario. Questa operazione politica è tanto più facile e rischiosa quanto più le componenti dei docenti, degli alunni e dei genitori ignorano i principi fondamentali che regolano il funzionamento degli organi collegiali.

E' per questo che bisogna sentire il dovere di avvicinarsi al problema e cercare di suscitare per esso un certo interesse fra colleghi e studenti.

Per una definizione degli organi collegiali ricorriamo alle parole del prof. Costantino Mortati, insigne giurista e coestensore prima e interprete poi della nostra carta costituzionale.15

Nel suo testo di Istituzioni di Diritto Pubblico, su cui si sono forgiati e continuano, sia pur in modi diversi, a forgiarsi studenti universitari di più generazioni e che rappresenta ancora oggi un pilastro di quel ramo del diritto, il prof. Mortati, a proposito degli organi collegiali, si esprime nei seguenti termini: "…sono quelli che hanno come titolare un insieme di persone chiamate ad agire come unità, essendo la volontà dei singoli unificata nel collegio cui ogni membro partecipa, in condizione di parità e di inseparabilità. Sembra inesatta l'opinione che considera i singoli componenti il collegio, anziché titolari di un unico organo, distinti organi dello Stato oppure organi interni dell'organo collegiale".

Sulla definizione si ritiene utile qualche semplice annotazione esemplificativa.

Che la titolarità dell'organo collegiale spetti a più persone come se fossero un'unica persona ("agire come unità") significa nel nostro caso, cioè negli organi della scuola, che né un membro (il docente Tizio o il genitore Caio) né una componente dell'organo collegiale (i docenti, gli alunni, i genitori o il preside) possono credere di rappresentare unilateralmente l'intero organo.

L'affermazione che "ogni membro partecipa in condizione di parità" rafforza tale idea, significando che nessuno può pretendere di influenzare la volontà unitaria dell'organo collegiale accampando una qualche speciale prerogativa.

Questa regola non trova eccezioni nemmeno per quanto riguarda il ruolo di colui che presiede l'organo collegiale, il quale deve limitarsi a garantire il corretto svolgimento dei lavori: 1) facendo le convocazioni con la preventiva comunicazione dell'ordine del giorno (gli unici problemi che il collegio può discutere e su cui può deliberare); 2) dando la parola a tutti i i partecipanti che ne fanno richiesta; 3) assegnando a chiunque e quindi anche a sé stesso un tempo massimo per esporre le proprie argomentazioni ed evitando così interventi troppo lunghi che danneggiano l'economia del dibattito; 4) impedendo interventi non pertinenti rispetto all'ordine del giorno; 5) invitando i membri del collegio a presentare tutte le mozioni ritenute soggettivamente opportune e che solo secondo il vaglio dell'organo collegiale possono essere accolte o respinte; 6) sottoponendo al voto le singole mozioni presentate, con le procedure (voto palese o segreto16, per alzata di mano o per appello nominale) stabilite, di volta in volta, dallo stesso organo in base al principio di autoregolamentazione; 7) garantendo la corretta verbalizzazione di tutte le delibere e dei soli interventi per i quali ne sia stata fatta esplicita richiesta; 8) specificando gli esiti delle votazioni (unanimità o maggioranza dei voti validamente espressi).

Il presidente dell'organo collegiale, ad esempio un rappresentante dei genitori nel caso del Consiglio di Istituto, non guida i lavori del collegio nel senso di suggerire, nè tanto meno di imporre, il proprio punto di vista in quanto più alto e qualificato rispetto ad altri punti di vista. Egli è guida solo nel senso di garantire un regolare, ordinato ed efficien-te svolgimento dei lavori. Su questo punto il Mortati è molto chiaro, quando afferma che i singoli componenti il collegio non sono "organi interni dell'organo collegiale"; in altre parole, ogni membro di un organo collegiale si presenta, in quella sede, spoglio di qualunque ruolo esso possa di norma ricoprire all'esterno di tale organo.

Quando sorgono dubbi su quale debba essere il regolare funzionamento di un qualunque organo collegiale dell'amministrazione statale, può sempre essere utile un riferimento a quelli che sono i più importanti organi di questo tipo: i due rami del Parlamento. Far assistere gli alunni e, perché no?, anche docenti e genitori (per i presidi si presuppone già una buona conoscenza di questi meccanismi procedurali) ai dibattiti parlamentari trasmessi dalla televisione in occasione di decisioni politiche importanti, sarebbe una lezione molto utile per capire e "praticare" le principali regole della democrazia a tutti i livelli.

Né metro né bilancia

E' l'espressione con cui un insegnante bravo e scrupoloso in una riunione ha respinto il tentativo di trovare sistemi di misurazione oggettivi per il rendimento scolastico degli alunni. Noi insegnanti, questo dovrebbe essere il significato dell'espres-sione, non possiamo misurare con precisione l'input e l'output culturale della scuola come fa un imprenditore con le merci. Questo - attraverso calcoli di spese generali e particolari, incassi per le merci vendute, valutazione per altro sempre incerta delle rimanenze di magazzino e altre poste di bilancio – può, sia pur con una certa appros-simazione, determinare il valore aggiunto dalla sua attività alle merci. Come fa invece un insegnante a quantificare con esattezza il grado di maturazione di un alunno all'inizio e alla fine di un anno scolastico e il grado di conoscenze acquisite in quell' arco di tempo?

Avendo l' obbligo giuridico di dare dei voti in decimi, l'insegnante finisce per metter dei numeri sul registro in occasione delle verifiche scritte ed orali. Questo adempimento crea però, negli insegnanti che avvertono la delicatezza della questione, dubbi morali e problemi psicologici per due ordini di motivi.

Il primo e più immediato è la consapevolezza che, in un colloquio o nell'esame di un elaborato, la rispondenza fra ciò che sta nella mente e nell'animo dell'allievo e il voto, che l'insegnante deve attribuire, è sempre alquanto approssimativa, c'è sempre un insopprimibile elemento di soggettività. La sofferenza psichica, che l'operazione può determinare, si attenua col passare degli anni, perché ci si fa l'abitudine, così come un chirurgo col tempo fa l'abitudine nell'usare il bisturi sulla carne viva dei pazienti; è però una sofferenza che può diminuire, ma mai scomparire del tutto.

Il secondo tipo di problemi è di natura deontologica. Insegnare significa trasmettere conoscenze e valori e l'efficacia di tale azione dipende da molte variabili: 1) I contenuti da trasmettere sono decisi liberamente dall'insegnante oppure da un altro soggetto da cui egli dipende? 2) I tempi e le modalità del rap-porto educativo sono scelti liberamente dal maestro e dall'allievo o sono predeterminati da una volontà esterna ai soggetti di tale rapporto ? 3) Il docente ama e conosce le cose che vuole insegnare ad altri ? 4) Il docente ha affinato l' "arte" di trasmettere agli allievi le sue conoscenze e i suoi valori ? 5) L'allievo partecipa al processo educativo per sua libera scelta o perché costretto dalle leggi dello Stato o per non dare dispiaceri ai genitori ?

Queste e tante altre condizioni soggettive ed oggettive influiscono nella modulazione del rapporto fra i due soggetti e nella quantità e qualità dei mutamenti che si ottengono nella personalità e nelle conoscenze dell'allievo.

Ora, a parte il problema già esaminato della possibilità di misurare questi cambiamenti, dobbiamo chiederci, e qui subentra l'aspetto deontologico, se l' insegnante debba controllare l'entità di questi cam-biamenti e soprattutto se debba alla fine esprimere un giudizio di valore sull'allievo. Anche se il diritto positivo di tutti gli Stati moderni dà a tal proposito una risposta affermativa, dal punto di vista professionale e morale la risposta non è così semplice.

Nella storia della cultura occidentale abbiamo avuto molti filosofi e molti profeti che ci hanno lasciato grandi insegnamenti; pochi sono però quelli di cui conosciamo il "modo" di insegnare. Fra questi un posto di rilievo occupano Socrate e Gesù, i quali non si sono limitati a creare idee e valori nuovi, ma ne sono diventati personalmente divulgatori. Forse non è esercizio puramente intellettualistico prendere in esame, sia pur brevemente, come questi due grandi maestri hanno impostato il rapporto educativo.

1) Entrambi stabilivano al momento quali erano gli insegnamenti da dare, a seconda delle circostanze, e certamente nessuno ha mai loro imposto di trattare una serie di argomenti predeterminati in un tempo prestabilito. Non diamo quindi per scontato che l'organizzazione della scuola pubblica renda inevitabile un sistema formativo con contenuti, metodi e tempi prestabiliti. L'ansia di fare determinate cose, in determinati modi e in tempi prestabiliti è il motivo principale dei fallimenti scolastici e degli abbandoni.

2) Entrambi parlavano ai discepoli di cose che amavano e conoscevano profondamente. Se fosse accaduto quello che a volte succede oggi ed avessero dato una cattedra di religione a Socrate ed una di filosofia a Gesù, il corso della storia sarebbe stato diverso da quello che conosciamo.

3) Entrambi sapevano come catturare l'attenzione dei discepoli, come tener viva quell'attenzione, come metterla a frutto per insegnare; Gesù faceva ricorso alle parabole perché parlava a persone con basso livello di istruzione; Socrate faceva giungere i discepoli alle stesse sue conclusioni con una serie di passaggi logici, a volte complicati, ma comunque alla portata degli interlocutori.

4) Gli allievi di Socrate e di Gesù andavano spontaneamente e con desiderio agli incontri con i loro maestri; anzi, nel caso di Gesù, vivevano col loro maestro. E' difficile, lo sanno bene soprattutto gli insegnanti di oggi, comunicare con chi ci sta davanti solo perché vi è stato costretto coi ricatti fisici o morali.

5) Per Socrate e Gesù gli allievi non erano tutti "uguali", però essi si guardavano bene dall'umiliare con giudizi affrettati quelli più pigri o meno brillanti. Socrate non si stancava di dialogare con l' interlocutore, finchè non riusciva a fargli capire i suoi errori logici, e la tenacia con cui affrontava l'impresa determinava quasi sempre un successo: l'ironia era un metodo di comunicazione non uno strumento di giudizio. Quanto a Gesù non c'è dubbio che non abbia mai rimproverato qualcuno per non aver capito, ma solo eventualmente per non aver voluto capire: gli insegnamenti di Gesù erano di natura morale ed egli pensava che alcuni avessero convenienza a non capire; bocciava eventualmente la cattiva disposizione d'animo, non la difficoltà di intendere.

I due grandi maestri di cui si è finora parlato dunque non hanno mai usato metro o bilancia per misurare i frutti del loro lavoro, non hanno mai dato voti, non hanno mai intimorito nessuno registrando giudizi.

Dovrebbero imparare a meditare su questo genere di problemi i nostri ministri dell'istruzione, prima di metter mano alle riforme ed inondare gli insegnanti di "livelli standard" , programmazione, efficienza ed efficacia nel raggiungimento degli obiettivi, strategie educative e castronerie varie.

UNA TIPOLOGIA DELLA VALUTAZIONE

Tanto i fenomeni naturali quanto i fenomeni sociali tendono a verificarsi secondo la legge statistica proposta da Gauss. Tale legge dice che in ogni fenomeno quantificabile c'è un valore medio che risulta sempre avere una elevata frequenza di eventi. Più ci si allontana da questo valore medio e più la frequenza diventa bassa. Facciamo due esempi.

Esempio n.1 Altezza degli Italiani di sesso maschile.

Se l'altezza media degli uomini in Italia è di metri 1,74, gli uomini che hanno questa altezza sono tan-tissimi. Quelli alti m. 1,70 o m. 1,78, che hanno cioè solo 4 cm in più o in meno rispetto al valore medio, sono molti. Quelli alti m. 1,64 e m. 1,84, che si discostano dalla media di 10 centimetri, incominciano ad essere pochini. Quelli alti m. 1,54 e m. 1,94, che si discostano dalla media di venti centimetri, sono abbastanza rari.

Gauss espresse questa regolarità degli eventi con un grafico a forma di campana.

MEDIA CM 174

Esempio n. 2 Ore giornaliere passate davanti alla TV.

Se verifichiamo che la media è di quattro ore, a questo valore la frequenza sarà molto elevata; quelli che guardano la TV per tre o cinque ore giornaliere saranno certamente di meno; quelli che la guardano per una o sette ore saranno pochi; quelli che la guardano per soli trenta minuti o per più di sette ore saranno pochissimi; quelli che non la guardano mai o la guardano 24 ore su 24 saranno dei casi veramente eccezionali. Il grafico che descrive questi comportamenti dovrebbe presentarsi all'incirca nel modo seguente:

MEDIA 4 ORE 

* * * *

La "normale" di Gauss nella valutazione scolastica

Se la regola statistica e la curva normale di Gauss sono strumenti di analisi accettabili, possiamo provare a usarli per costruire una tipologia dei metodi di valutazione usati dagli insegnanti. Secondo questa regola, la preparazione media degli alunni, quella che "per convenzione" corrisponde al voto di 5,5 decimi (1+10/2=5,5),17 dovrebbe essere la più frequente e, mano mano che ci si allontana da tale valore, la frequenza dovrebbe diminuire. La curva dovrebbe perciò presentarsi pressappoco così:

MEDIA 5,5 SCARTO 1,94 

La curva disegnata sopra sfata uno dei pregiudizi più diffusi fra gli insegnanti, e cioè che il cinque non si dà.

Diciamo subito che, per comodità nella valutazione complessiva di fine anno, si può anche decidere di non attribuire questo voto, ma bisogna sapere che così facendo si forza una legge statistica , eliminando la realtà più consistente. Solo per comodità diremo che nessun alunno è mediocre, mentre la "normale" di Gauss al contrario dimostra che proprio la mediocrità è il valore più diffuso….e non solo tra gli alunni.

La curva di Gauss, in certi casi particolari, potrebbe anche presentarsi per ragioni oggettive in modo diverso rispetto a quella prima disegnata. Potrebbe essere diversa qualora, ad esempio, ci trovassimo di fronte ad una classe troppo disastrata oppure ad una appiattita su valori medi o ad una talmente competitiva da raggiungere valori molto elevati.

Vi sono però insegnanti che, non eccezionalmente in alcuni anni ma regolarmente tutti gli anni, tendono a fare valutazioni che si discostano sistematicamente e sempre per un certo verso dalla curva di Gauss. In questi casi è evidente che lo scostamento non dipende tanto dalle particolari condizioni di una certa classe, ma da una interpretazione tendenzialmente errata del loro lavoro, un errore che a volte rasenta una patologia di natura culturale o caratteriale dell'insegnante.

Proviamo ad illustrare quattro di questi casi tendenzialmente " patologici" con riferimento ad una ipotetica classe di 26 alunni.

1)MEDIA 4,5 SCARTO 1,5

E' l'insegnante che si definisce severo e che gli alunni in genere definiscono crudele. Ma è mai possibile che su 26 alunni solo otto riescano a prendere la sufficienza o poco più della sufficienza? E' l'insegnante che organizza il lavoro prescinden-do dalle capacità recettive degli alunni e pretende da questi un rendimento eccessivo rispetto a ciò che le capacità medie e lo stile di vita moderno rendono possibile. L'insegnante di questo tipo spesso arriva a un ragionamento paradossale: se nessuno mi segue è perché io sono troppo bravo!

2)MEDIA 6,42 SCARTO 1,27 

E' l'insegnante che si definisce buono e che gli alunni a torto spesso considerano ingenuo.

Ma è mai possibile che tutti gli alunni siano così bravi ? Tutti un incrocio fra Archimede e Pico della Mirandola ! L'insegnante in questi casi è sempre comprensivo per i problemi personali, familiari, sociali ecc.

I motivi possono essere tanti. Alcuni sono veramente buoni: pietà religiosa, sentimento paterno o materno eccetera. Ce ne sono però anche alcuni brutti, molto brutti: la pigrizia di valutare (discriminare significa non far copiare ai compiti e quindi anche impiegare molto tempo per correggerli e significa passare lunghe ore in verifiche orali molto stressanti) e la paura di valutare.

3) MEDIA 5,76 SCARTO 1,1 E' l'insegnante i cui voti si concentrano sul cinque e sul sei, con uno scarto quadratico medio molto basso18. L'insegnante si azzarda a dare il quattro solo a uno o due alunni e il sette solo a uno o due alunni. Tutta la classe si colloca in pratica sul livello della mediocrità e la differenza fra chi non studia mai e chi studia sempre si trasforma in genere in un punto, un punto e mezzo di scarto. Questo insegnante è come un pianista che suona solo pochi tasti centrali: non riesce a tirar fuori tutte le armonie che lo strumento consentirebbe.

Se in origine la classe non era appiattita, ci penserà questo tipo di insegnante a farcela diventare: gli alunni, prima motivati allo studio, vedendo che la differenza di valutazione non rispecchia le differenze di impegno, non potendo aumentare il proprio voto, diminuiranno l'impegno, con gravi danni sul piano del profitto.

4) MEDIA 5 SCARTO 1,71

Questo insegnante si pone all'opposto di quello numero tre. Capovolge il reale e, contrariamente alla norma statistica, dice che le mediocrità non esistono: esistono solo le sufficienze e le insufficienze.

A volte può essere una forma culturale di manicheismo; più spesso l'eliminazione del cinque è un modo per sottrarsi a un meccanismo burocratico perverso. In sede di scrutini finali infatti il Consiglio di classe non può facilmente trasformare un sei in quattro o un quattro in sei, ma può benissimo trasformare un cinque in sei e un altro cinque in quattro. In questi casi due alunni simili verrebbero a trovarsi, in una materia, con voti finali molto diversi. Poiché l' insegnante non può spiegare loro il meccanismo, e se lo facesse correrebbe certamente il rischio di non essere creduto, taglia la testa al toro e decide da solo se un cinque passa a sei o a quattro.

* * *

Dopo avere illustrato i quattro casi tipici di impostazioni valutative anomale o che tendono a scivolare verso una patologia della valutazione ben visibile anche attraverso i grafici, accenniamo ad un quinto caso, anch'esso anomalo, ma particolare perché si verifica pur presentandosi con una rappresentazione grafica canonica.

E' il caso delle frequenti discrepanze fra la valutazione di un docente e quelle degli altri docenti della stessa classe.

All' alunno Tizio tutti danno un voto di sufficienza, ma il prof. Rossi dà l'insufficienza; all' alunno Caio tutti danno l' insufficienza, ma il prof. Rossi dà la sufficienza.

Nella valutazione scolastica, è vero, non vale la regola della democrazia per la quale la maggioranza ha ragione in quanto tale. Può anche succedere che nove insegnanti si sbaglino ed uno abbia ragione. Se però questa discrepanza di valutazione è sistematica, deve sorgere il dubbio che il prof. Rossi non solo non sappia valutare gli alunni, ma che sia anche sfortunato, perché non riesce nemmeno ad azzeccarci secondo le leggi della probabilità.

Alcuni docenti, insicuri dei voti che danno, cercano di ovviare a questo inconveniente, dando una fugace e furtiva occhiata ai voti finali dei colleghi.

I TEMPI DELL'APPRENDIMENTO

Il mondo della scuola visto dall'esterno sembra molto semplice. Forse tutti i lavori visti dall'esterno sembrano semplici.

Ma non è così e per rendersene conto, senza ricor-rere all'esagerazione del primo socialismo reale con la sua teoria della rotazione fra lavoro intellettuale e manuale, forse non sarebbe del tutto errato se almeno qualche giorno all'anno i contadini facessero gli insegnanti e questi i contadini.

Anche l' idea di cambiare lavoro almeno per tre o quattro volte nella vita non è poi del tutto stupida19, ha un suo fascino: sarebbe "come vivere" tre o quattro volte; forse significherebbe vivere tre o quattro volte, senza "come".

Dunque, si diceva, il mondo della scuola non è così semplice e facile come potrebbe sembrare. Le pagine dedicate alla Tipologia della valutazione hanno già gettato un cono di luce sulla complessità di quell' aspetto della didattica. Ora si vuole invece analizzare sia pur brevemente un altro aspetto dell'insegnamento: quello del rapporto fra quantità di programma svolto in un'unità di tempo, ad esempio un anno scolastico, e numero di allievi che raggiungono un soddisfacente livello di preparazione su quel programma svolto.

A tal proposito diciamo subito una cosa tanto ovvia da rischiare consapevolmente il dileggio: si tratta, usando il concetto con una certa elasticità, di un rapporto di proporzionalità inversa. Se il programma è minimo (ad esempio venti concetti, venti pagine del libro di testo, venti formule o teoremi, l'unità di misura più adatta dipende naturalmente dalla materia), a fine anno tutti gli alunni avranno imparato tutto, anche quelli con un livello di partenza basso o con capacità logiche limitate. Via via che aumentiamo il programma svolto, ad esempio non venti ma duecento concetti o formule, i ritmi di trattazione degli argomenti devono diventare più sostenuti, gli alunni meno capaci o meno attratti dallo studio20 incominciano a non farcela più, diventano demotivati e smettono di apprendere. A fine anno ci si ritroverà con un venti o trenta per cento che ha "mollato".

Se, per continuare nel ragionamento, arriviamo all'ipotesi paradossale di un programma di duemila concetti o formule, possiamo ragionevolmente ipotizzare che in tal caso saremo seguiti solo da quei pochi mostri di intelligenza e di bravura che forse abbiamo la fortuna di ritrovarci in classe.

Si pone allora per ogni insegnante un problema fondamentale: è più giusto svolgere un programma minimo ed essere seguiti da tutti o un programma "completo" ed essere seguiti da pochissimi ? Sarebbe molto bello poter risolvere il dilemma con una delle tipiche ed esilaranti battute del simpatico attore della banda Arbore, Massimo Catalano: meglio fare un programma ponderoso ed avere alunni tutti preparatissimi. Ma poiché programma e risultati dell'apprendimento come prima detto sono legati in modo inverso, ciò non è possibile.

Allora bisognerà fare una scelta drastica? Non necessariamente.

A metterci in guardia contro l'eccessivo lavoro, causato agli allievi da uno svolgimento sconsideratamente frettoloso del programma, forse basta il consiglio taoista di Lao-Tsu21 :

"Frustare in continuazione il cavallo non è un modo per giungere lontano".

A metterci in guardia contro il difetto, basta un minimo senso dell'onestà: annoiare gli alunni per un anno intero sempre con le stesse quattro nozioni, si configurerebbe come inadempienza nel rapporto di lavoro, con tutte le conseguenze giuridiche e morali del caso.

Ci sono sempre soluzioni come quella del "giusto mezzo" propostaci da gente di prim' ordine come Aristotele22, il quale ci invita ad evitare sia l' eccesso che il difetto.


NOTE   Parte prima

1Scritto di tono polemico. Si diffuse in Europa nel diciottesimo secolo come strumento di sensibilizzazione su scottanti temi d'attualità

2Fra il '95 e il '99 questi passaggi di classe stipendiale erano subordinati alla frequenza di corsi di aggiornamento che, a parte alcune eccezioni, si dimostrarono insulsi e spesso ridicoli per la scarsa preparazione di coloro che si improvvisavano docenti e per lo scarso interesse delle tematiche trattate.

3 Tale effetto dovrebbe essere quasi irrilevante per la netta percezione dello scarso potere decisionale dei vecchi sindacati nella gestione della politica scolastica e nella soluzione delle vertenze a livello di singola istituzione. Forse le cose cambieranno, quando, con le elezioni delle RSU, in ogni scuola saranno presenti almeno tre rappresentanti sindacali abilitati a ricevere e trasmettere informazioni, controllare alcuni atti e concordare talune decisioni (art. 6, commi 3,4,5 CCNL 1999).

4Una serie di regolamenti attuativi dovrebbe calare quei principi nella realtà, ma finora di concreto si è visto ben poco. Per l'autonomia nei curricoli, ad esempio, le nuove disposizioni sono: tutto come l'anno precedente !
( DM 26/6/2000 n. 234 )

5"Il pof è reso pubblico e consegnato agli alunni e alle famiglie all'atto dell'iscrizione" (dpr 275/99,art.3, comma 5)

6Si tratta di un punto piuttosto oscuro, perché ci troviamo di fronte ad elementi normativi contraddittori risolti alla fine pilatescamente dal governo, con la richiesta di un parere al Consiglio di Stato.

La Guida al Contratto della scuola, pubblicata dal Sole24 ore a marzo del '99, riportava la seguente formulazione originaria dell'art. 12, comma 4: "Il capo d'istituto può avvalersi, nello svolgimento delle proprie funzioni organizzative e gestionali, della collaborazione di docenti da lui individuati in base all'art. 7 lett. h del t.u. n. 297/94; a partire dall'1/9/2000 trova applicazione l'art. 1 del d.lgs. n. 59/98". Gli esperti Da Settimo e Noce commentavano tale norma, sostenendo che dall'1/9/2000 "In pratica, il Collegio dei docenti viene esautorato dalla funzione di indicazione dei collaboratori del preside".

L'art. 12 ora citato, che diventerà l'art. 19 nella versione ufficiale del contratto siglato a maggio '99, verrà modificato. Le parole " a partire dall'1/9/2000 trova applicazione l'art. 1 del d.lgs. 59/98" non compariranno più nel testo e ci si limita a stabilire più genericamente che il Capo d''Istituto individua alcuni docenti sulla base della normativa vigente.

La cosa induce a pensare che i sindacati confederali si siano accorti del passo falso che stavano per fare ed abbiano chiesto appositamente una modifica. L'ipotesi è avvalorata dal fatto che la c.m. 214 del settembre '99 rammenterà che il vicario continuerà ad essere scelto dal capo d'istituto tra i collaboratori eletti dal Collegio dei docenti e a svolgere le proprie funzioni a norma delle disposizioni contenute nel d. lgs. 297/94.

Purtroppo la c.m. 193 del 3/8/2000 ( agosto per gli insegnanti è spesso il mese delle docce fredde ), recependo il parere della 2^sezione del Consiglio di Stato, ha stabilito che si deve ritenere superata la disposizione riguardante le competenze del Collegio dei docenti in merito all'elezione dei collaboratori del preside.

La questione non è di poco conto perché per ogni tentativo di esautorazione del Collegio dei docenti vale la pena di fare una questione di principio.

7Per gli scandali dei concorsi pubblici scoppiati in agosto e settembre 2000 si rinvia alle ampie cronache di cui si sono riempiti tutti i quotidiani ed i settimanali italiani di quei mesi.

8 1 Che non sono pochi: dal personale in esubero nella p.a. agli stipendi e le pensioni d'oro concessi alle figure alte e medie di una burocrazia supponente e improduttiva.

9 Famosa trasmissione televisiva delle anni Sessanta in cui con una sola domanda o si vinceva una grossa somma o si perdeva tutto quanto già vinto con le domande precedenti.

10 Circa le categorie di soggetti che hanno dato certe risposte, alcune osservazioni si sono rese possibili grazie al carattere informale e quasi giocoso assunto dalla somministrazione di questo questionario, complici il caldo di maggio e giugno e la stanchezza per gli adempimenti di fine anno. Nella somministrazione di questo questionario, anche se involontariamente, non è stata adottata la stessa scrupolosa segretezza del questionario precedente e quindi, anche rispettando l'anonimato dei singoli, è stato possibile fare delle considerazioni sulle correlazioni che emergevano fra alcune scelte e la tipologia degli autori di quelle scelte. Ci si augura che nessuno si lamenti di ciò, anche perché nel precedente questionario tutti hanno dichiarato di appartenere a nuclei familiari con reddito medio ed eventuali contestazioni implicherebbero l'autodenuncia morale per dichiarazione infedele.



NOTE  Parte seconda

1Si tratta della lettera a D'Alema di cui si è parlato nella Premessa.

2Qua ci riferiamo all'autonomia così come viene configurandosi nella normativa finora prodotta.

3 Da agosto 2000 sappiamo che sarà così.

4 Vedi l'intervista rilasciata dallo stesso segretario della cgil a Repubblica il 3 maggio 2000, alla quartultima risposta.

5 I sindacati di base non vengono neppure ascoltati poiché si sono rifiutati di firmare il contratto '99. In questo modo il Governo in pratica si sceglie i sindacati con cui trattare; quelli che gli vanno maggiormente a genio.

Quali sono le motivazioni di queste scelte "politiche" ?

6La cisl dovrebbe invece arrivare a circa il 16%, lo snals al 12%, la uil al 4%, la gilda al 3% e gli altri sin-dacati di base all'1,5%. Il tasso di sindacalizzazione dovrebbe pertanto aggirarsi sul 45%, cosa della quale, in base alla mia personale esperienza, mi permetto di dubitare.
Poiché questi dati percentuali (risultanti dall'elaborazione delle cifre assolute pubblicate dal Sole24ore il 21/9/2000) si riferiscono all'anno 1998, cioè a prima dello sciopero del febbraio 2000, le percentuali dei sindacati di base dovrebbero oggi risultare un poco più alte.

7 Col tempo si rimedierà con gli archivi telematici, ma per ora la situazione prevalente è quella descritta.

8 Il caso in esame potrà sembrare banale data la limitatezza dell'intervallo di tempo preso in considerazione. Esso ha tuttavia non poca importanza sul piano teorico del rapporto fra tempo lavorativo, produzione e produttività e sul piano pratico qualora in futuro lo stesso problema dovesse porsi per intervalli di tempo più significativi.

9 Ciò anche in quelle scuole in cui da oltre vent'anni il Provveditore ha espressamente autorizzato la riduzione per tutte le ore di lezione a causa del pendolarismo di un numero consistente di alunni.

10 Ritengo che le competenze del dirigente in materia di orario riguardino più l'ordine di svolgimento delle lezioni che la durata delle stesse.

11 A coloro i quali, essendo a vari livelli interessati alla difesa dei nuovi meccanismi meritocratici e di redistribuzione del potere, sostengono che la nuova normativa privilegia il principio di collegialità, si può facilmente obiettare che i principi costituzionali della libertà di manifestazione del pensiero in generale e della libertà di insegnamento in particolare hanno avuto nella dottrina una interpretazione costantemente univoca. Questi principi costituiscono non solo un riconoscimento al valore della personalità umana, ma anche il fondamento di ogni società pluralista e democratica.

Inoltre bisogna sempre tenere ben presente l'importante linea di demarcazione fra l'"aspetto organizzativo" del lavoro e la libera estrinsecazione della propria personalità "mediante il lavoro". Il primo può essere il frutto di scelte manageriali o collegiali, la seconda può scaturire solo dalla consapevole autodeterminazione del lavoratore, tanto più libera quanto più prevale l'aspetto intellettivo.

12 La legge finanziaria per l'anno 2001 prevede lo stanziamento di 650 miliardi per 750.000 insegnanti (per un aumento annuo lordo di 860.000 lire a testa) e di 200 miliardi per 9.000 dirigenti (per un aumento annuo lordo di 22.200.000 lire a testa).

Questa vistosa quanto iniqua disparità di trattamento credo derivi in larga misura dal fatto che cgil e cisl sono oggi rappresentate nel comparto scuola da due presidi, i quali, nascondendo il conflitto di interessi da ciò creato, vanno alle trattative per i rinnovi contrattuali più per fare aumentare i propri stipendi che per difendere gli insegnanti….. dei quali oltretutto, a livello di singole scuole, sono la controparte.

13 Col sistema retributivo la pensione si calcola sulla base degli ultimi stipendi percepiti, mentre col sistema contributivo la pensione è commisurata ai contributi effettivamente versati. Col primo sistema è sufficiente fare un bel balzo stipendiale anche a fine carriera per assicurarsi una pensione più sostanziosa.

14 Il sito Internet del Ministero della p.i. (istruzione.it) risulta scadente e poco aggiornato rispetto ai siti di tutti i sindacati (unicobas.it, gildains.it, cobas.it, snals.it, cislscuola.it, cgilscuola.it, uilscuola.it).

15 Nato a Corigliano Calabro il 27/12/1891, morto a Roma nel 1985. Professore di Diritto costituzionale, deputato alla Costituente, giudice della Corte costituzionale.

16 Al voto segreto si ricorre quando la decisione riguarda le persone.

17Per la legge dei grandi numeri la probabilità rilevata empiricamente deve gradualmente avvicinarsi alla probabilità teorica, coincidendo alla fine con essa.

18 Lo scarto quadratico medio è un valore statistico che indica la distanza fra gli elementi rilevati empiricamente e il valore medio che essi esprimono.

Primo esempio: i voti finali degli alunni A,B,C sono rispettivamente 3,5,7; la media dei voti sarà (3+5+7)/3= 5 e lo scarto quadratico medio sarà elevato perché i valori degli alunni A e C sono piuttosto distanti dalla media.

Secondo esempio: i voti finali degli alunni D,E,F sono rispettivamente 5,5,5; la media dei voti sarà 5 come nel caso precedente, infatti (5+5+5)/3=5, ma lo scarto quadratico medio sarà nullo perché gli elementi considerati non si discostano minimamente dalla media.

Per i più interessati all'argomento, la formula per calcolare lo scarto quadratico medio, indicato con la lettera greca sigma, è la seguente: radice quadrata della sommatoria del quadrato degli scarti (fra ogni singolo elemento e la media degli elementi) divisa per il numero degli elementi considerati. 

19 Oltretutto si concilia molto bene con la "flessibilità", innovazione dell'organizzazione del lavoro sempre più di moda nei salotti buoni dell'industria tradizionale come della new economy. Il riciclaggio dei lavoratori è un'idea che va sempre forte fra gli imprenditori perché permette loro di assumere e licenziare alle condizioni che il mercato fa risultare di volta in volta più convenienti

20 Man mano che i risultati degli alunni meno dotati per l'apprendimento peggiorano, questi reagiscono allontanandosi emotivamente dallo studio. Gli insuccessi sono sempre demotivanti. Non convince l'idea che dare voti bassi inciti allo studio, gli psicologi dicono il contrario. Per chi si è sacrificato una volta, occorre un "rinforzo" che giustifichi il secondo sacrificio. In tal modo si attiva un circuito virtuoso, mentre le frustrazioni attivano un circuito negativo.

21 Lao-tzu (secolo VI o V a.C.): "Wen-tsu" (Capire i misteri), cap. 10. Si tratta di uno dei più importanti testi del taoismo, ricco di massime accattivanti come quella sopra menzionata. A titolo di esempio, per diletto e a fini pedagogici, si ritiene utile riportarne qualcun'altra.

- "Quando sono promulgate troppe leggi, ci sono tanti ladri e banditi" cap. 10.

- "La Via del cielo consiste nell'abbassare l'elevato e nel rialzare il basso, nel ridurre l'eccessivo e nell'aumentare l'insufficiente" cap. 39.

22 " Ogni persona che ha conoscenza fugge l'eccesso e il difetto, invece è il giusto mezzo che cerca ed è questo che sceglie." (Aristotele "Etica nicomachea" libro II, 1106 b 5- 6)