L’IMPEGNO DELL’UNICOBAS
CONTRO IL RAZZISMO
Tre domande al segretario
generale della Confederazione Italiana di Base Unicobas, Stefano d’Errico
Perché l’Italia è a rischio
razzismo?
Il razzismo attecchisce per
vari motivi. Le destre sono riuscite a cavalcare il malcontento dei ceti meno
abbienti per la riduzione del lavoro, della stabilità d’impiego, di
retribuzioni e garanzie sociali, “riconvertendo” la solidarietà sociale e di
classe in fastidio per gli immigrati, vissuti quali meri concorrenti per l’occupazione.
Questo in un “primo” mondo nel quale la figura del produttore è cambiata e s’è
abbassato di molto il peso della cultura, surrogata dal consumo e dai simulacri
di “status” impermanenti dei sub-valori dominanti. Il vero “relativismo etico”
è l’assenza di valori, in primis del principio dell’eguaglianza e della
solidarietà fra gli esseri umani. I sub-valori si sono imposti con il trionfo
dell’egoismo spicciolo e brutale, con la primazia assoluta del denaro,
l’economia di carta che sovrasta persino la produzione in sé. Parallelamente va
tenuta presente la scalata sociale della piccola e media imprenditoria (molto
presente nell’esempio del Nord-Est, ma riscontrabile anche in altre regioni),
dell’élite artigianale, dei “mastri evasori” favoriti dal governo, nonché della
stessa “aristocrazia operaia”. I soggetti di questa “crescita” sradicata e
disumanizzata, legata al mito del benessere diffuso e di uno “sviluppo” senza
morale e ritenuto senza limiti (alla faccia di un utilizzo ponderato delle
risorse non rinnovabili), senza più il minimo ancoraggio ad un progetto di
equità ed ecologia sociale, hanno come compagna di strada la malavita
organizzata, il malaffare lobbistico e l’inquinamento della politica. Il
risultato è un irrigidimento micidiale, gretto ed acritico a difesa delle
posizioni acquisite: da qui la propaganda leghista sulla “sicurezza”, mirata a
sviare il problema di un universo sottoculturale e comportamenti criminali
(peraltro ben governati dalle mafie), in realtà consapevolmente indotti dal
regime di ricatto e sfruttamento selvaggio cui viene sottoposta la manodopera
immigrata. Ecco l’origine della vergognosa, pusillanime (ed improduttiva) linea
“emergenziale”. È la politica della “tolleranza zero”, che – come dimostrano
gli Stati Uniti, oggi con 20 milioni di clandestini dopo vent’anni di tentata,
radicale repressione del fenomeno – non può aggredire la questione alla radice.
È una politica strutturalmente cieca ed ipocrita, nata per essere forte con i
deboli e debole con i forti.
Ma tutto ciò non sarebbe stato possibile senza
l’atteggiamento imbelle e compromissorio di una certa “sinistra” che, dagli
anni ’70, ha preparato il terreno. Accettando la logica delle compatibilità,
quindi la compressione dei diritti, la marginalizzazione per legge (votata dal
grande centro-sinistra allargato del primo governo Prodi) dei (pochi) sindacati
di base realmente indipendenti, la creazione di una sorta di “terzo mondo
interno” fatto di precariato, l’emergere di “due società”, il lavoro in affitto
e quant’altro. Una sinistra solo politicista volta a (qualsivoglia)
compartecipazione di potere, incapace peraltro anche di abbandonare certo
ciarpame dottrinario ossificato, di progettare fuori dagli schemi che hanno
causato la sconfitta storica e senza appello del comunismo autoritario e della
socialdemocrazia. Incapace per propria natura – come dimostra la fine
ingloriosa delle componenti dalla “faccia” massimalista – a ridare fiato in
senso libertario alla cultura dell’impegno e del cambiamento, nonché di dotarsi
di strumenti idonei ad intuire i fenomeni e ad intervenire.
La compressione dei salari e delle garanzie, in
questo Paese, s’impone soprattutto grazie alla collaborazione militante di
tutte le burocrazie confederali concertative, quando proprio la lotta per
conservare e radicare i diritti sarebbe stato l’unico argine possibile per
impedire il crollo generale del movimento dei lavoratori. Va da sé, infatti,
che una forte azione di contrasto alla flessibilità ed al lavoro nero,
all’evasione fiscale ed alla delocalizzazione dei capitali e della produzione,
avrebbe oggettivamente depotenziato l’azione di ricatto indotta dalla mutazione
“genetica” del nuovo esercito industriale di riserva, mantenendo in vita i
necessari elementi di conflittualità, organizzazione ed unitarietà del corpo
sociale subalterno (per di più in un Paese di ex immigrati), senza
discriminazioni etniche e razziste.
Qual è lo stato della risposta di quella
parte del movimento dei lavoratori rimasto coerentemente antirazzista oggi?
Non per autoreferenzialità, l’Unicobas può oggi
sostenere che lo stato dell’antirazzismo è messo in chiaro proprio dal lavoro,
locale e nazionale, del Coordinamento Nazionale Stop Razzismo, che ha
contribuito a fondare. È ben giustificata un’analisi senza false modestie,
relativamente alla manifestazione nazionale del 17 Ottobre.
La “cartina di tornasole” è paradossalmente
rappresentata dalla posizione della CGIL. Dato eclatante è come la dirigenza di
questo sindacato sia stata portata – credo davvero per la prima volta nella sua
storia controversa (senza dubbio in tempi recenti) – ad accettare una
piattaforma genuinamente umanitaria, radicalmente solidale, socialista e
libertaria. Questo, che sicuramente rende merito anche a quanti all’interno
della CGIL stessa hanno saputo tenere il punto rispetto alla questione
immigrazione, ci parla però soprattutto di una più generale ripresa d’autonomia
della sinistra: un primo tentativo di emanciparsi seriamente dal “pensiero
unico”. Infatti la Confederazione è venuta su questo piano, sul nostro piano,
grazie al lavoro che Stop Razzismo, da solo, ha prodotto per di più di un anno,
avviato ben in anticipo sulla prima grande manifestazione antirazzista: quella
romana del 4 Ottobre 2008 (nella quale la CGIL scelse di non essere presente,
sviluppando invece un’iniziativa, minoritaria ma concorrente, a Caserta). Al
contrario di quanto succede nella scuola, dove la CGIL s’è mossa con grande
ambiguità e grave ritardo, favorisce una certa radicalizzazione
sull’antirazzismo (per ora solo “estemporanea”) della CGIL, l’isolamento
sindacale e la messa in discussione persino degli elementi di base degli
ammortizzatori sociali, come l’attacco unidirezionale di Bossi alla cassa
integrazione per gli immigrati dimostra. Al tempo stesso, la situazione svela
la pochezza strutturale della politica concertativa sin qui seguita dalla
Confederazione: “legalità” solo per chi lavora ed è “regolare” in un Paese dove
i migranti producono almeno il 36% del prodotto interno lordo, ricevendone in
cambio solo il 2%. In un Paese dove buona parte della ricchezza è creata dal
lavoro nero arruolato “all’impronta”, ma s’impone ai migranti (vecchia legge
Bossi-Fini lasciata intonsa dal “Centro-Sinistra”) di giungere alla frontiera
già con il contratto in tasca, altrimenti li si marchia oggi (“Pacchetto
sicurezza”) con l’assurdo giuridico del reato di clandestinità.
Giungono finalmente notizie positive anche dalla
parte più sana della militanza CGIL. Il riferimento è però davvero alla base ed
a qualche quadro interno: contrariamente a quanto successo talvolta in passato
(ma per obiettivi di molto minore importanza), nel caso di specie non è stata
la solita “sinistra sindacale” ad influire, bensì la radicalità, il coraggio
(ed il “contagio”) del progetto. Un progetto che ha spiazzato prima di tutto
partiti ed apparati, che anzi lo vedevano come il fumo negli occhi per meri
problemi di concorrenza “gruppettara” con l’area di Stop Razzismo.
Ricordiamoci altresì che la Confederazione è stata guidata per anni, ad esempio, da un segretario generale poi resosi tristemente noto come uno dei “sindaci sceriffi” che il Partito Democratico ha messo in campo per inseguire la Lega Nord sul piano del radicamento xenofobo. Ricordiamoci quanto la cultura leghista abbia corrotto parte dell’apparato cigiellino, affermando una presenza preoccupante fra gli iscritti di alcune zone industriali. Ed a ben vedere, in piazza c’era soprattutto l’entusiasmo e la radicalità della componente migrante della base CGIL, unitamente all’area sana del tessuto militante italiano. Ciò ha reso possibile che i manifesti locali della Confederazione (molto più che in sede nazionale) riportassero integralmente la piattaforma della manifestazione.
Contestualmente, abbiamo assistito anche al
tentativo di cancellare il percorso che ha portato al 17 Ottobre, o di
appropriarsi dell’iniziativa e della piazza, sia da parte di trogloditi che di
prime donne della politica. Mettendo a parte il folclore degli abitanti della
giungla (metropolitana) – residui urlanti che, come al solito, avrebbero voluto
conquistare “manu militari” la testa del corteo – basta pensare ai vari
Vendola, Ferrero, Malabarba, Ferrando (in parte “coperti” dall’ARCI). Tutti in
prima fila a prodigarsi in interviste, ma pressoché assenti sul piano della costruzione
e promozione della piattaforma, nonché dell’organizzazione del corteo. Abbiamo
visto Pannella (lui, almeno, era nello spezzone del Partito Radicale), ed è
arrivato persino Franceschini (il PD non aveva neppure aderito): sono stati i
dispacci ANSA che, contrariamente a quanto s’aspettava (peraltro riportando
inattendibili note al ribasso della Questura), davano 70.000 manifestanti in
piazza.
Quella del 17 Ottobre, come avvenuto il 4 dello
stesso mese del 2008, non è stata una manifestazione per gli immigrati
ma soprattutto dei migranti. Un grande successo delle forze di Stop
Razzismo, che non è stato possibile oscurare neppure tramite la conventio ad
excludendum che ha caratterizzato i media ed i giornali di partito. Non
poteva essere diversamente, visti i tanti che hanno governato questo Paese
senza concludere nulla di buono (neppure una normativa sul conflitto
d’interessi), votando operazioni militari e leggi anticlandestini, sin dai
tempi della legge Turco-Napolitano.
Anche per questi motivi, possiamo parlare di un
successo maturato non a caso. Deriva infatti da un nuovo modo di essere nel
sociale, che ha posto all’ordine del giorno una prassi completamente diversa
dal passato settario. Fuori da quei cartelli più o meno “disobbedienti” che
allineavano invece alla disciplina del più vieto politicismo anche buona parte
del cosiddetto sindacalismo “alternativo”. Cartelli senza progetto comune,
uniti, non a caso, da un’altra conventio ad excludendum, ritualità
autistica di una “base cobassata” volta a circoscrivere chi, come i promotori
di Stop Razzismo – Associazione Interetnica 3 Febbraio, Socialismo
Rivoluzionario, Umanisti ed Unicobas – pur navigando con strumenti pragmatici
in mare aperto e senza preclusioni aprioristiche non ha mai inquinato i propri
“geni” (nel micro come nel macrocosmo del “teatrino”), facendosi strumento
delle velleità e dei do ut des di grandi e piccoli animali politici di
una certa “opposizione”. Un successo che, congiuntamente a quanto avvenuto il 5
Dicembre con il No Berlusconi day, ha fatto irrompere sulla scena un
nuovo universo etico e strumenti adeguati d’analisi.
Il percorso che ha portato al 17 Ottobre è frutto di
un rinnovamento ideologico che non si fida più della politica-spettacolo e
neppure dell’entità statuale in sé, strumento patogeno dell’autoritarismo e
della diseguaglianza. Un percorso che aborrre verticismi e totalitarismi,
riconoscendo la necessità strutturale di una sinistra non compromessa,
autogestionaria e pluralista, secondo i principi del socialismo libertario ed
umanista.
Che prospettive per l’antirazzismo?
Il 17 Ottobre scarica su di noi delle responsabilità
forti, in un lavoro di lunga lena, le cui “gambe” sono i comitati, la
quotidianità della presenza, dell’organizzazione e della lotta. Ma è necessario
aggiungere più passi: il patrocinio legale e sanitario, la coordinazione
dell’impegno per una cultura interetnica e contro ogni discriminazione nella
scuola, sino ad un nuovo lavoro di difesa sindacale per i migranti stessi.
Abbiamo la necessità di allargare Stop Razzismo, favorendo la partecipazione
organica di altre forze, soprattutto se portatrici di una centralità etica. E’
bene che già dallo scorso anno sia entrato il PdCI, ma mi riferisco ora al
cristianesimo di base – ad esempio “Pax Christi” –, ad alcune comunità come la
Chiesa Valdese, nonché a realtà coerenti e decisive come “Medici senza
frontiere”. Dobbiamo impedire che, come avvenne nel movimento “No global”,
s’operi nel fronte antirazzista una selezione negativa: quella che “macinò” le forze
più sane ed indipendenti, sacrificate alla lotta intestina fra soggetti della
micro-politica in preda ad una crisi di nervi, frutto del disperato tentativo
d’accreditarsi quali “portavoce” mediatici. Non è più il tempo di querelle
ed avventure: vogliamo costruire con serietà, non operare strumentalizzazioni
politiche del tema funzionali a piccole rendite d’immagine e di potere.
Tantomeno vogliamo ricreare quel deserto che altri hanno prodotto nel recente
passato! Dobbiamo dotarci di strumenti di informazione ed analisi, allargare
non solo l’area militante, ma anche quella intellettuale e culturale di
riferimento, allargare il dibattito, investire della questione la gente comune,
senza falsità ed ideologismi di maniera.
Alcune frizioni nella CGIL e segnatamente
l’agitazione in casa COBAS e CUB dimostrano la preoccupazione per la nascita di
una “Terza Forza” che rompe il “duopolio” gestito di concerto, al tempo del
movimento “altermondialista”, fra il sindacalismo “alternativo” di cui sopra ed
una parte dell’apparato CGIL. Questa Terza Forza è “secolare” e nuova al tempo
stesso. Partendo da vecchie radici umaniste, socialiste e libertarie, è stata
sinora capace di segnare l’agenda, entusiasmare, ridare progetto, uscendo dal
“resistenzialismo” vacuo e politicista di una certa sinistra. Ciò esclude però
un totale embrasson-nous per una presunta unità “a tutti i costi”. Va
rivendicata sino in fondo la giusta prassi adottata da Stop Razzismo per
giungere al “mare largo” del 17 Ottobre: abbiamo dimostrato che si può arrivare
al massimo dell’unità saltando la logica del compromessso di maniera e del
“vorrei ma non posso”, a partire invece da un programma chiaro, sano e
determinato.
Il Coordinamento nazionale Stop Razzismo è prima di
tutto di chi lo sceglie per affinità, anche nella costruzione di un progetto
generale. Non di meno, per contare, Stop Razzismo è quello che occorre sia: una
realtà plurale capace realmente di riconoscersi come tale e di interloquire con
tutti, ma senza deflettere dall’onestà dichiarata del progetto.